The Cure - Songs Of A Lost World (2024) 

Chi si sarebbe mai davvero immaginato un capolavoro di tale portata? Dopo lavori indecorosi come l'appena decente The Cure (2004) e l'orribile 4:13 Dream (2008) la band di Robert Smith e soci torna con un album sorprendente che nessuno si aspettava.

Non penso che me ne pentirò in futuro ma Songs Of A Lost World è uno dei migliori dischi dei The Cure in assoluto. Mancherà sicuramente il singolone trainante, il brano di facile consumo che piace a tutti ma questa mancanza è per me il bene assoluto dell'intero lavoro. Otto brani condensati in musica di primissima fattura, suoni che richiamano per certi versi al progressive (sarà quel genere ormai scomparso il mondo perduto?) e una voce bellissima che si fonde come un mosaico perfetto all'interno di arrangiamenti carichi di tastiere e di intro lunghissime e mai banali.

I sogni sono svaniti per sempre, infranti in atmosfere cupe e dark strizzando l'occhio a quei capolavori di Disintegration, Pornography e Bloodflowers ma solo al livello concettuale, perché musicalmente qui siamo altrove, forse, persino più in alto.

I testi da tradizione sono figli di alte ispirazioni letterarie come in "Alone", ma anche da vicende più personali come la malinconica “And nothing is forever” e “I can never say goodbye” dedicata al fratello scomparso. In chiusura, invece, “Endsong”, riprende l'incipit per concludere l’album con lo stesso riferimento lirico con cui è iniziato “It’s all gone, it’s all gone”, quasi a dare una ciclicità non solo all'intero lavoro ma a tutta la discografia della band che qui, grazie al contributo di Reeves Gabrels alla chitarra si fa più sperimentale con toni votati all'improvvisazione.  Un album magistrale dove forse il solo Jason Cooper alla batteria non tiene completamente testa ai suoi compagni di viaggio. Non so cosa uscirà da qui a fine 2024 ma Songs Of A Lost World si candida di prepotenza come il disco più bello dell'anno. 9/10

 

PS: ho acquistato il disco ad Arezzo nello storico negozio del centro Cory Music store che merita davvero di essere esplorato. 

Pet Shop Boys – Nonetheless (2024)

Mai avrei pensato di recensire un disco dei Pet Shop Boys nel 2024 e trovarlo così fresco, ispirato nei liriche e nelle scelte musicale, forse non argute ma fedeli alla linea, curatissime e sempre interessanti da avermi alla fine costretto all’acquisto del vinile. Nonetheless quindicesimo lavoro in studio del duo inglese è uno dei loro lavori più belli, complice la voce Tennant sempre su grandi livelli e di testi bellissimi che parlano di come sia difficile vivere i tempi moderni soprattutto se si risiede in Inghilterra. Il disco spazia tra canzoni più dance a ballatone di una bellezza disarmante in un tutto che riesce ad essere perfettamente coeso e intenso dalla prima all’ultima traccia. Merito è anche della splendida produzione di James Ford che rende più minimale e fruibile a volte le troppo complesse linee di synth di Lowe. Ci sono ricordi di un passato glorioso, ovviamente, ma arrangiamenti carichi di archi e fiati mescolati a synth più anni 80 che restituiscono un sound per certi versi inedito e moderno ai Pet Shop Boys invecchiati spesso molto peggio di così. “New London Boy” strizza al passato ma lo fa con toni più pessimistici mentre “Feel” e “Why Am I Dancing?” ci portano dentro una virtuale discoteca di fine anni 80, con una dance per signori attempati in cerca di sguardi misteriosi e qualche gin tonic. “Bullet For Narcissus” è il brano che in questo momento preferisco in un lavoro comunque mai sottotono o da effetto nostalgia. Se qualcuno pensava che i dinosauri degli anni 80 non avessero più nulla di veramente interessante da dire qui dovranno ricredersi, e parecchio.  7/10

Arab Strap – I’m Totally Fine With It Don’t Give A Fuck Anymore (2024)

Il nuovo album degli Arab Strap almeno per il sottoscritto si posiziona tranquillamente nelle prime posizioni dei dischi più belli di questo 2024. Successore di quel capolavoro “elettronico” intitolato “As Days Get Dark” del 2021 questa nuova fatica si discosta molto dal predecessore anche solo da un punto di vista musicale, infatti qui il duo scozzese Aidan Moffat e Malcolm Middleton decidono di fare quasi tutto da soli suonando e producendo insieme al fidato Savage, ne viene fuori un lavoro per certi versi più vario, meno coeso ma anche pieno di intuizioni musicali diverse e dissonanti tra suoni synth-rock, dance ma anche passaggi più duri quasi a ricercare una natura più heavy e industrial. Un lavoro molto profondo nelle liriche, forse mai così critiche verso tutto quello che consumiamo in rete, in questo è simbolica e interessante anche la scelta di tutto l’art-work del disco che rimanda ad improbabili chat. Lavoro per certi versi politico e di rottura in cui ascolto dopo ascolto si incomincia ad entrare in un loop atomico e si desidera gettare via tutta la tecnologia presente in casa per scapparsene nei boschi. C’è sempre McLuhan che aleggia all’interno di questo lavoro anche nel capolavoro del disco “Bliss”, vero atto d’accusa contro le molestie online e i leoni da tastiera. Avevamo davvero bisogno di tutto questo? Troviamo tanto synth-pop in “Hide Your Fires” mentre la splendida “Summer Season” ha passaggi più suffusi e dub. Suoni afrobeat accompagnano la struggente e personale “Strawberry Moon” mentre più scarna e folk è la toccante “Safe & Well” basata su una storia vera di una donna lasciata morire sola e in decomposizione durante la pandemia. Un lavoro vario, forse non il più bello degli Arab, sicuramente il più orecchiabile e “commerciale” quantomeno nei suoni che però accompagnano dei testi attualissimi, ispirati e a volte carichi di ferocia. Una volta la musica era anche così, pensate un po’ voi! 8/10

Paul Weller -  66 (2024)

Diciamolo chiaramente Paul Weller è uno dei grandi maestri rimasti, capace di sfornare lavori pregevoli ad ogni uscita discografica e di LP ormai se ne contano una cinquantina, uno ogni due anni circa, album sempre interessanti, a volte bellissimi come questo “66” che sono gli anni del protagonista, un attore mai invecchiato veramente che ci porta in atmosfere sixties dove in 42 minuti di musica ispiratissima ci ricorda ancora una volta chi comanda nella musica contemporanea.

Disco acustico, intimo, pop come l’artwork realizzato dal genio della pop art Peter Blake ad illustrare un lavoro personale, soprattutto nei testi, profondi, quasi autobiografici. In “Jumble Queen” troviamo un Noel Gallagher ad accompagnare Paul in un elogio sulla bellezza del creato. Poi le sonorità diventano beatlesiane in ballate sempre struggenti piene di archi e arrangiamenti orchestrali che rimandano anche a qualche lavoro più accessibile di Nick Drake ma anche ai dischi più recenti dello stesso Weller.

Momenti di appannamento non ce ne sono davvero e “Soul Wandering” o “Ship of Fools” sono solo alcune delle gemme nascoste in un album che siamo sicuri non sarà l’ultimo per un artista che ha deciso di concedere tutto se stesso al grande pubblico, senza tenersi nulla per se. In questo 2024 davvero pieno di grandi album anche il “vecchio” Paul può salire nell’olimpo dei più grandi. 7.5/10

The Damned – Damned Damned Damned (1977)

Se non conoscete i Damned andate a recuperare immediatamente questo loro disco d’esordio anche perché probabilmente si tratta del primo vero album punk della storia. Damned Damned Damned non va però soltanto conservato per la sua funzione di pietra miliare, tutt’altro, va ascoltato con attenzione perché si tratta di una gemma di rara bellezza. Nei solchi di questo vinile troverete soprattutto, a differenza dei loro coetanei dalle chiome sbarazzine una rivisitazione di quello che nel 1977 era il vecchio e caro rock and roll. Rock certo ma anche tanta ironia a partire già dalla bellissima copertina che raffigura i nostri quattro amici reduci da una gara di torte in faccia in una posa quasi rinascimentale. “Neat Neat Neat” è probabilmente il vero e autentico manifesto punk definitivo, immediata, rapida, quasi una filastrocca da cantare a squarciagola. “Fan Club” e “Born To Kill” rappresentano dei classici intramontabili e “New Rose” verrà coverizzata persino dai Guns N’Roses diversi anni dopo. Anche se i Damned non sono ancora pienamente a fuoco in studio di registrazione le loro abilità come musicisti, soprattutto nelle chitarre sovrasta la maggior parte dei gruppi punk dell’epoca soprattutto nell’adrenalinica “Feel The Pain” ma anche in “I Feel Alright” con il dovuto debito da pagare ai Stooges. Un disco ristampato non so bene quando ma che suona benissimo e tra l’altro pagato venti euro in una Feltrinelli Romana. Seminale. 8.5/10

Porcupine Tree – Lightbulb Sun (2008)

Nel 2008 i Porcupine Tree pubblicarono questo doppio LP riportando il tanto amato-odiato progressive alla ribalta di un pubblico più vasto. Famosissimi in Italia, con uno Steven Wilson che nel frattempo ha pubblicato lavori altalenanti ma sempre di nobile fattura. Lightbulb Sun va recuperato intanto perché un doppio LP a 20 euro non è cosa così scontata di questi tempi, ma anche perché nel bene e nel male in questi solchi troverete un sunto di quello che è stato e che è ancora oggi il progressive rock. Senza somigliare veramente a nessuno Wilson e soci sfornano uno dei loro lavori più interessanti, “Four chords that made a million” e “Hatesong” sono acide, cariche, da gridare quasi a squarciagola. Dave Gregory arrangia il tutto con archi curatissimi e mai banali se molti troveranno questo lavoro noioso e prolisso lo capisco, dopotutto il progressive era così negli anni 70 ma i Porcupine non si sono mai curati veramente di questo, vanno avanti per la loro strada e forse, sono ancora molto amati proprio per questo.  

Robert Wyatt – Dondestan (revisited) (1991)

Francamente ritengo Dondestan soprattutto nella sua versione rivisitata (ovvero remixata per sopperire al mixaggio originale frettoloso per mancanza di budget) uno dei dischi più belli degli anni 90 e uno dei lavori più importanti di Wyatt. Robert qui decide di fare tutto in casa, partendo dalla cover e dai testi realizzati dalla moglie-artista Alfreda Benge per finire a suonare tutti gli strumenti presenti nel disco. Un lavoro sognante, affascinante dalla prima all’ultima nota, dove con un certo piglio per il minimalismo quasi alla Philip Glass emerge la voce di Robert, bellissima, struggente, il vero strumento  “nascosto” potremmo dire della sua carriera.

Il suono qui è molto free jazz mutuato in qualche modo da Rock Botton ma che si fa più rarefatto, per certi versi articolato. Testi molto politicizzati compongono capolavori del calibro di NIO (New Information Order) e Sight of the Wind tra le cose più alte mai scritte dal nostro beniamino. Non ci sono momenti d’arresto, cadute di stile, qui tutto è su vette altissime come la musica “pop” non è forse mai stata, un capolavoro che viene molto spesso considerato inferiore al già citato Rock Botton e Sleep forse a ragione ma che in realtà mantiene ancora oggi un suono così coeso e cristallino da far gridare al capolavoro in ogni secondo. Qui si sta veramente dalle parti del paradiso.

Frank Turner – Undefeated (2023)

Arrivato al decimo album Frank Turner ci riporta un po’ indietro nel tempo, agli 90 di MTV che magari non erano questo granché ma che rispetto a quelli “social” attuali appaiono anni luce più affascinanti. Undefeated è un disco power-pop in cui il buon Frank parla del tempo che passa, tra acciacchi fisici, amori tramontati e amicizie perdute. Il disco ha un suono super commerciale anche se la scelta di allontanarsi da una major per una situazione più indie è di sicuro apprezzabile e rende all’artista una credibilità che forse non aveva mai avuto prima. I suoi amici Sleeping Souls accompagnano Frank nel suo studio casalingo dando un tocco di artigianato a canzoni che fanno della melodia e della formula strofa ritornello strofa ritornello la loro cifra stilistica. Un lavoro poco ricercato da un punto di vista compositivo (ma anche musicale) con brani radiofonici perfetti da canticchiare in auto o seduti ad un pub con una pinta in mano. Ma in tutto questo c’è un però e questo però è il brano che chiude il disco ovvero la titletrack, una ballata piano e voce struggente che non solo vale il disco ma forse anche un carriera. Commovente, davvero di alto livello, il brano più bello che Frank Turner non aveva mai inciso prima con un’esplosione finale degna di una grande star. 6/10

Idles – Tangk (2024)

Io amo questi fottuti ragazzi del cazzo! Disco dopo disco gli Idles mi hanno convinto come pochi altri gruppi hanno saputo fare, merito sicuramente di un sound hard-core riconoscibile e verycool ma anche per una grinta, amore e attaccamento al progetto che Joe Talbot e soci hanno trasmesso già dai primi vagiti. Arrivati al loro quinto disco gli Idles con Tangk propongono un suono ancora più variegato, forse inclassificabile merito anche della produzione di quel Nigel Godrich che di hits ne ha partorite parecchie. Molti i momenti lenti del disco, forse anche i più belli e particolari, affascianti e trascinanti che riescono a mostrare le notevoli qualità vocali di Talbot. Con “Dancer” la band realizza un nuovo incredibile inno merito anche di una sezione ritmica stratosferica, come per certi versi la straniante “Roy” una ballata alla U2 che davvero non ci si aspetta da un gruppo così. Il jazz di “Monolith” porta di nuovo la band su altre vette insieme a brani più in linea ad un sound potremmo dire famigliare. Uno dei dischi più interessanti del 2024, e per me, la dico grossa il disco migliore degli Idles.

David Sylvian – Blemish (2003)

Tra le cose prese di recente in vinile c’è stato anche questa gemma, forse un po’ dimenticata di Sir David Sylvian datata 2003 che mi incantò già alla sua uscita accompagnandomi per oltre vent’anni e più. Blemish è il primo lavoro di Sylvian fuori  da una major, un disco amato ma anche molto odiato dagli appassionati, difficile, che in qualche modo si allontana dalla forma canzone classica per virare verso uno sperimentalismo che sarà poi il marchio di fabbrica del musicista inglese per i successivi anni a venire. Si parte con la bellissima titletrack che racchiude in se anche l’essenza del disco stesso, loop elettronici, lenti sognanti ad accompagnare la caldissima voce di Sylvian in un contrasto mai così forte tra umano e non umano, reale e virtuale.

In “The Good Son” Sylvian ci sussurra una storia sulle grandi improvvisazioni chitarristiche di Bailey, forse il più grande genio delle sei corde degli anni 2000. Nei brani successivi Sylvian ci regala un cantato sognante ma nello stesso tempo inquietante, dove il tessuto sonoro diventa più sperimentale già in brani come “The Only Daugther” e “The Heart Knows Better”. Bailey è protagonista anche nelle tracce “She is Not” e “How Little We Need To Be Happy” destrutturando il suono prima del finale elettronico di "A Fire In The Forest" forse più speranzoso e solare rispetto alle tematiche cupe del disco.

Blemish è un disco che a mio parere nel tempo ha acquistato ancor più valore, un lavoro che va assimilato e ascoltato, magari di notte, in solitudine anche per comprendere perché David Sylvian rimane uno dei più grandi artisti viventi. 8.5/10

Tubeway Army -Replicas (1979)

Gary Numan leader incontrastato dei Tubeway Army firma il suo primo capolavoro con un lavoro straniante, pieno di riferimenti alla letteratura beat di William Burroughs, J.G. Ballard e Aldous Huxley, un disco cupissimo, dove la solitudine dell’uomo è messa al centro di un mondo alla deriva, un uomo alieno, ossessionato, incapace di governare le macchine quindi per certi versi profetico, adatto più oggi che al giorno della sua uscita. La macchina sostituisce l’uomo e lo fa anche musicalmente parlando, con i synth che la fanno da padrona. Un concept album interessantissimo nella trama seppur di difficile decifrazione: la razza umana è messa in pericolo da questi Machman, umanoidi poliziotto governati da un intelligenza artificiale che da una parte vuole sterminare la razza umana ma che sa che non può farlo totalmente. Tantissimi i riferimenti letterari che accompagnano un disco pop solo nelle apparenze. "Are 'Friends' Electric?" nonostante non abbia la classica struttura strofa ritornello diventerà una hit, accompagnando questo lavoro incredibilmente al n.1 in classifica. Un LP che verrà saccheggiato da moltissimi artisti per creare loop, sample e che in qualche modo influenzerà la scena musicale dei successivi quarant’anni, dalla new wave all’hip pop. Un disco che non possiede momenti d’arresto, nessun riempitivo a partire dalla bellissima traccia iniziale "Me! I Disconnect From You" con grandi riff di synth e la voce di Numan sempre su livelli altissimi. Il primo singolo "Down In The Park" verrà coverizzato tantissimo anche dai Foo Fighters e "Praying To The Aliens" stupisce per il suo arrangiamento complesso, con un basso pulsante e incastrato in un mosaico dalla precisa architettura. "It Must Have Been Years" è più classica nella struttura formata sul duo basso e chitarra concedendo anche il lusso di un assolo finale mentre "When The Machines Rock" ha un incedere quasi militare e "I Nearly Married A Human" chiude un disco epocale, capolavoro in ogni suo momento.

Non Aprite Quella Porta (1974)- Tope Hopper Vers. restaurato in Bluray 2024

Prima di parlare del film vero e proprio voglio dire due parole su questa versione restaurata uscita giustamente anche nei cinema. Un restauro quindi non una semplice “remastered” che getta le basi su come dovrebbe essere trattata una pellicola degli anni 70, riportando alla luce un capolavoro del cinema che volenti e nolenti aveva bisogno di questo trattamento. Avevo un vecchio DVD ma il paragone è inavvicinabile e soprattutto il tutto è fatto con tale garbo e cura che non si notano orbelli digitali aggiunti a caso che sarebbero andati a stravolgere anche da un punto di vista cromatico l’ottima fotografia. Nella Versione bluray sono previsti molti extra che non ho visionato, dico solo che mi sono gettato nella visione scegliendo la versione con il nuovo doppiaggio anche se onestamente anche il vecchio non l’ho mai ritenuto male. In sala il film è uscito nella sua lingua originale, giustamente, sottotitolato.

Comunque parliamo del film e facendolo magari scoprire ai pochi, spero, che non l’hanno mai visto prima. La trama è molto semplice: un gruppo di ragazzi, hippy, vanno a fare una gita in giro per il Texas e si imbattono in questa famiglia di cannibali assassini capitanati da Leatherface (faccia di cuoio) divenuto celebre e cult in tutti i seguiti, reboot e via discorrendo. Ovvio che il destino dei giovani ragazzi sarà infausto per diciamo quasi tutti.

Il film è totalmente autoprodotto e Hooper per le riprese chiama amici e conoscenti presi dal collage e non personale affermato. Questa scelta secondo me si dimostrerà vincente per generare da una parte un realismo estremo e anche un taglio quasi documentaristico. Gli attori pur se tutti sconosciuti sono semplicemente fantastici come è geniale l’idea di Hooper di dipingere il film come una sorta di “storia vera” arricchendolo di una fotografia quasi “naturale” dando appunto questo senso di estremo realismo. Moltissime le scene cult, la prima entrata in scena di Leatherface è clamorosa come l’assassinio della ragazza utilizzando il gancio da macellaio. Un film che non lascia scampo allo spettatore, con dialoghi sensazionali uno fra tutti quello dei tre fratelli cannibali durante la cena ma anche colpiscono anche i dialoghi tra i protagonisti nonché un sonoro clamoroso, con il rumore della motosega che diventa vero e proprio terrore uditivo. Da comprare assolutamente per tenerselo gelosamente custodito nella proprio libreria, capolavoro non adatto ai deboli di cuore.

Il tunnel dell’orrore – Fanhouse (1981) R. Tope Hooper

Anche Hooper decide di girare il suo slash movie e lo fa con questo film divenuto per certi versi cult a tal punto da avere una versione collector davvero niente male anche perché acquistata a otto euro su amazon. La storia è molto semplice, quattro ragazzi si imbattono in un omicidio dentro un parco giochi ad opera di un mostro che poi si rivelerà il figlio dell’imprenditore del parco. Il film è tutto ambientato appunto dentro questo tunnel dell’orrore, una sorta di giostra a tema dove i nostri dovranno scappare dalle grinfie del killer. Il film non è ovviamente un capolavoro ma rappresenta un ottimo esempio di pellicola alternativa, grazie anche alla splendida caratterizzazione del personaggio, una via di mezzo tra Elephant Man, Mayers di Venerdì 13 ma anche alcuni personaggi del capolavoro Freeks.

La regia di Hopper è molto precisa e riesce in quattro cinque omicidi a mantenere sempre alta la tensione, complice anche la scelta di girare l’intero film all’interno di una location che già di suo appare spettrale e piena di colpi di scena. Sonoro e montaggio sono di altissimo livello per un film che non sembra nemmeno indipendente ma frutto di budget più da major, merito questo della grande maestria registica. C’è da dire che “Il tunnel dell’orrore” è uno di quei film anni 80 che è rimasto di più appiccicato nella mente e nei cuori degli appassionati, forse perché la pellicola contiene comunque quel “marciume” delle prima prove autorali di Hooper anche nella sua natura più commerciale ma anche perché il regista ha bene in mente che tutti noi tifiamo per il mostro e per la dipartita dei protagonisti. Edizioni splendida, menomale, compratela. 7/10

Il Corvo – R.Alex Proyas (1994)

Il Corvo compie trent’anni e il miglior modo per festeggiare questo cult movie degli anni 90 è l’acquisto della versione remastered in 4K, costosa ma indispensabile. Tratto dal bellissimo fumetto di James O’Barr, artista provato dal lutto che in maniera compulsiva disegnerà un po’ ovunque questa storia che riuscirà poi a mettere insieme diventando un fenomeno underground degli anni 80 grazie anche alla sua particolarità e cupezza.

Alex Proyas mette in scena con grande maestria un film che è rimasto nei cuori di tutti gli appassionati di cinema e che malgrado non tocchi le vette di Dark City (il successivo lavoro di Proyas) folgorò un’intera generazione, purtroppo anche per la morte del protagonista Bradon Lee proprio sul set del Corvo.

Il film funziona su tutti i punti di vista e malgrado i trent’anni non è invecchiato affatto male, merito di una fotografia dark riuscitissima, attori davvero nella parte e una colonna sonora che è diventata anch’essa ormai cult. Un lavoro che utilizza poco la computer grafica e grazie a dei set davvero suggestivi ci porta in questa fiaba moderna, con questo corvo che vola tra i palazzi in un cielo grigio dove piove sempre come in Blade Runner e con il nostro protagonista zombie che ritorna appunto dalle tenebre per vendicarsi di chi ha spezzato la sua vita e quella della sua amata.

Le scene d’azione sono studiate alla perfezione e Brandon Lee riesce oltre a mettere in campo le sue qualità atletiche nelle arti marziali a suggestionare lo spettatore nei numerosi primissimi piani, merito anche dei costumi, centrati e di quel trucco un po’ da pierrot che dona a Lee un aspetto quasi androgino, poetico. La grandezza del film sta comunque nella sua estetica che spazia dall’espressionismo al dark più estremo con delle scene iconiche come la corsa sui tetti o quando si reca a casa della madre della bambina e gli strizza l’eroina dalle vene. Un angelo caduto sulla terra dannato ma nello stesso tempo beato per un film imprescindibile e da acquistare in formato fisico attendendo magari che il prezzo scenda. Quasi un capolavoro. 8/10

Enrico Brizzi – Due (2024)

“Jack Frusciante E’ Uscito Dal Gruppo” è stato un romanzo generazionale, cult dal momento della sua uscita che ha lanciato Brizzi nel piccolo olimpo degli scrittori italiani capaci di sfornare best seller, vendendo milioni di copie. Onestamente non ho mai amato quel romanzo d’esordio, trovandolo troppo piagnucolone, a tratti scontato che apprezzai  però moltissimo per lo stile narrativo, il linguaggio adolescenziale derivato dallo slang di allora tanto che alla fine presi anche il romanzo successivo, “Bastogne” che a tutt’oggi rimane uno dei momenti più alti di narrativa italiana che io ricordi, capolavoro in tutte le sue pagine.

Trent’anni dopo Jack Frusciante Brizzi scrive il sue seguito, “Due” appunto e lo fa ambientando la storia tra il 1992 e 1993 appena dopo il distacco forzato dei due protagonisti Alex ed Aidi, divisi dall’Oceano Pacifico per l’anno di studi negli Stati Uniti della giovane protagonista. Alex è distrutto ma saprà riprendersi regalando alcuni momenti davvero toccanti e poetici.

Brizzi parte in pompa magna scrivendo le prime quaranta pagine con grande ispirazione, torna la sua grandissima narrativa, un linguaggio audace e inedito e regala nella primissima parte del romanzo anche il suo massimo. Tra momenti nostalgia, il ricordo vintage di un mondo che ormai non esiste più a me sono scese le lacrime. Il problema però incomincia a nascere superata questa prima fase, in cui non soltanto cala l’ispirazione ma sia le vicende narrate ma anche lo stile narrativo incominciano a lasciare un po’ il fianco al mero mestiere. Alla fine si arriva un po’ sofferenti con lungaggini di troppo che non aggiungono nulla alla storia ma che anzi, sanno di già letto, allo scontato finale. Interessanti sono alcune lettere che la protagonista scrive al nostro beniamino oltre oceano ma il tutto è ammantato da un tremendo senso di riempitivo. Ne esce fuori un lavoro secondo me non riuscito, un romanzo destinato più ai fan che ad un pubblico maturo con uno scrittore che forse aveva già trent’anni fa spremuto da questa storiella tutto quello che era possibile tirar fuori. Rimandato a settembre.