Beetlejuice - Spiritello Porcello (1988) R: Tim Burton

Visto che nelle sale è appena uscito il secondo capitolo di questo capolavoro degli anni 80 firmato Tim Burton parliamo un attimo dell’originale Beetlejuice seconda opera del giovane Burton e forse una delle migliori in assoluto. Idea molto interessante e originale scritto da Michael McDowell e Larry Wilson narra la storia di due coniugi che morti in seguito di un incidente stradale si trovano a proteggere la loro casa “infestata” da vivi borghesi che la vogliono abitare. Il film è assurdo dalla prima inquadrature, con il piano sequenza iniziale che parte dal modellino della città per arrivare alla realtà con una regia davvero notevole, geniale. La scenografia psichedelica è sensazionale come la colonna sonora ormai cult, gli attori sono tutti tremendamente nella parte su tutti spicca una giovanissima Winona Ryder qui praticamente all’esordio bravissima nella sua interpretazione gotica quasi ad anticipare quelle mani di forbici che sarebbe arrivato subito dopo. Poi ovviamente c’è lui, Michael Keaton nei panni appunto di Beetlejuice uno spirito stravagante, cattivissimo ma stupendo in ogni sequenza. Ogni situazione è basata su trovate geniali, visive certo ma sceneggiate in maniera impeccabile. Un film tra l’altro che sembra non invecchiare mai e che anzi con il tempo ha acquistato ancora più fascino. Ogni personaggio ha la sua caratterizzazione e in qualche modo la sua importanza all’interno del film. Che dire capolavoro assoluto da vedere prima di andare al cinema per scoprire quello che la mente di Burton ha partorito nel 2024. Comprato in bluray in una bella edizione rimasterizzata a poco più di 5 euro e ovviamente il consiglio è quello di prenderlo prima che scomparirà dai radar il formato fisico. Capolavoro!

L'imprevedibile Viaggio di Harold Fry Regia: Hettie Donald (2023) 

Si torna a parlare di cinema e di cinema fatto da donne che sembrano in questo momento storico più ispirate di noi maschietti. Hettie Donald regista ampiamente usata in moltissime serie TV di successo fa di nuovo centro con il suo secondo lungometraggio dopo il buonissimo esordio di Beautiful Thing del 1996. Questo periodo lunghissimo tra un film e l'altro la dice lunga sullo stato attuale del cinema,  una regista di talento come la Donald infatti ha ripiegato per quasi un ventennio sulle inflazionate SerieTV (che per me rimarranno anche nella migliore delle ipotesi un prodotto surrogato e per forza di cose, minore) piuttosto che sulla settima arte ormai forse poco retribuita.

Tratto dall'omino romanzo, anch'esso splendido che mi ipnotizzò in un estate di diversi anni fa il film segue un andamento piuttosto lineare, dopotutto la trama è semplice dove il nostro Harold, uno strepitoso Jim Broadbend decide di percorrere 800km a piedi per andare a trovare una sua amica gravemente malata con cui, molti anni prima aveva condiviso un momento saliente della sua esistenza.

Intorno a questa trama la Donald costruisce una regia raffinata dove i primi piani del protagonista e alcuni piani sequenza donano alla pellicola una sorta di poeticità rendendo il film una via di mezzo tra "Una Storia Vera" di Lynch e "Forest Gump".

Il viaggio del protagonista oltre che spirituale è anche fisico, metaforico, perché con l'avanzare del tempo si comprende come forse non abbiamo bisogno di nulla, orpelli tecnologici come GPS, cellulari, stanze d'albergo lasceranno spazio alla sola natura e qui ritorna prepotentemente anche un pò il concetto ampiamente sviluppato da Penn in Into The Wild.

Un film che proprio come lo stupefacente Aftersun ci riconnette con  l'arte imprevedibile improbabile che ci ricorda ancora una volta che il cinema andrebbe protetto, cullato, custodito, amato. 4/5

AfterSun R: Charlotte Wells (2022)

Film notevolissimo che avevo già adocchiato da tempo e per certi versi generazionale (almeno per la mia di generazione) perché parte della pellicola è ambientata proprio in un’estate ipotetica degli anni 90. Un lungometraggio che gioca su sottrazione e verità celate nei fuori campo, quando la piccola videocamera DV con cui la giovane protagonista, una bravissima Frankie Corio, riprende quella che probabilmente sarà l’ultima estate trascorsa con suo padre. Opera prima di Charlotte Wells che ci restituisce un cinema davvero di alto impatto emotivo, riuscendo a trattare argomenti profondi senza essere mai stucchevole, un piccolo puzzle che compone una figura complessa come quella dell’essere umano. Un film che mi ha portato in territori ormai antichi come “L’estate di Kikujiro” di un ancora ispiratissimo Kitano ma anche in “Oltre la Notte” di Fatih Akin. Aftersun è perfetto già dal titolo come notevolissimo è anche Paul Mescal che riesce con un lavoro di fine eliminazione del superfluo a regalarci un’interpretazione indimenticabile e lucidissima. Amiamo il cinema perché ogni tanto, ormai raramente purtroppo, escono pellicole di questa levatura.  4/5

26 Giugno 2018

TAKESHI KITANO

Qui siamo davvero su livelli altissimi. Takeshi Kitano lo scoprii in quel capolavoro di "Merry Christmas Mr Lawrence" che incrociai, non per sbaglio in un lontanissimo 1989 nello struggente ed impressionante lungometraggio di Nagisa Oshima. Kitano aveva una parte secondaria e tutta l'attenzione, almeno mia era per i due protagonisti musicisti, Bowie e Sakamoto che già adoravo. Beat Takeshi (il suo pseudonimo per chi non lo sapesse) era alla sua prima prova da attore e sinceramente impressionò non poco soprattutto in quella sua battuta che di fatto chiudeva e dava il titolo al film. Persi le sue tracce, per qualche anno.

Nei primissimi anni 90 lasciavo tutte le sere la cassetta del mio videoregistratore su LP (ricordate?) per avere 6 ore di registrazione filata in modo da poter avere tutta la trasmissione "Fuori Orario" di Enrico Ghezzi che di fatto mi ha totalmente formato culturalmente. In una di quelle mie cassettine che poi rivedevo interamente tutti i fine settimana con il mio amico Massato scoprii "Violent Cop", primo film scritto, diretto e interpretato dallo stesso Kitano.

Che folgorazione!

Avevo nella mia cameretta un cineasta giapponese, nato come comico (ve lo ricordate mai dire banzai?) che non solo aveva diretto un film capolavoro ma che di fatto era riuscito ad interiorizzare dentro la sua opera tutto Bergman e la cultura europea che io amavo di più. Fu amore a prima vista.

Nella poetica di Beat Takeshi non era presente soltanto il pulp e una certa idea di violenza (che poi riprenderà a piene mani Tarantino) ma la poesia malinconica di un pierrot triste che ha fatto del minimalismo, anche recitativo, non solo la sua cifra stilistica ma una nuova chiave di lettura di tutta la settima arte a venire. In Kitano c'è tutto il cinema precedente ma appare nuovissimo sopratutto in una messa in scena originale e mai banale neppure nei suoi momenti più bassi (pochi).

"Violent Cop" fu però soltanto l'apripista, un inizio col botto per un crescendo di cui francamente non si ricordano casi analoghi (mi viene in mente soltanto Kubrick).

"Il silenzio sul mare" (1991) certo, "Sonatine" (1993) con quella battuta recitata con leggerezza ma anche violenza dallo stesso Kitano: "è bello non aver pudore!" che di fatto ha commosso non pochi spettatori. Ma sopratutto direi "Hana-Bi Fiori di Fuoco" che non gli valse soltanto il Leone d'Oro a Venezia, ma ha permesso al nostro beniamino di entrare nell'olimpo dei più grandi di tutti i tempi. "Hana-Bi" è il film perfetto per messa in scena certo, per come vengono trattate alcune tematiche care al regista (amore, vendetta, morte, arte ecc.) ma sopratutto per la sua interpretazione da attore, quasi inespressivo (per via di un grave incidente che ebbe in moto prima delle riprese) Kitano appare quasi come una figura straniante, una perla che scandisce con il giusto tempo in movenze azzeccatissime una pellicola che rimarrà per sempre tra i film più importanti della storia del cinema.

Per finire voglio segnalare il bellissimo "Dolls" che solo per la messa in scena vale un applauso di una settimana.

The Man Who Wanted To See It All (2021):

Ad un certo punto ti rendi conto che non ti serve un cazzo nella vita, bastano due gambe una bici per girare il mondo per una vita intera. Questa è la storia di Heinz Stücke che parte dalla Germania nel 1962 e gira tutto il mondo alla ricerca di se stesso ma anche per comprendere un livello più profondo dell'esistenza umana. Un documentario interessante questo proposto da Netflix che mi ha fatto pensare che siamo tutti leoni in gabbia, sfigati da tastiera, invidiosi di mondi lontanissimi. Voliamo, andiamo e mandiamo in pensione tutti coloro che fanno finta di volerci bene. Buona visione. 

Mark Hollis 1998

Non perdonerò mai del tutto i presunti appassionati di musica che in un modo o nell’altro hanno contribuito a far sparire i negozi di dischi, luoghi di cultura dove un tempo si potevano scoprire opere meravigliose come l’omonimo e unico lavoro di un genio “pop”, forse incompreso, forse troppo profondo. Lontanissimo dai primi Talk Talk di cui era leader e voce, qui Hollis si trova più dalle parti di Peter Gabriel e David Sylvian per andare se possibile ancora oltre e consegnarci un’immensa opera d’arte che può rivaleggiare tranquillamente con i lavori più ispirati di Robert Wyatt o Nick Drake. La voce è profondissima, musicalmente siamo su territori di jazz minimale anche se gli strumenti usati sono moltissimi : tromba, clarino, corno inglese, chitarre, piano, harmonium, basso, batteria, percussioni, armonica, fagotto…  un disco eccellente come la struggente The Colour Of Spring messa in apertura o la monumentale Inside Looking Out. Ma la verità è che qui ogni momento è prezioso, mai banale e ascolto dopo ascolto si percepisce qualcosa di nuovo e incantevole. Un lavoro che non potrà sparire dentro la banalità di questi tempi moderni e che a distanza di quasi trent’anni

Crimes Of The Future (2022) R: David Cronemberg

I crimini del futuro siamo noi, questo sembra suggerirci David Cronemberg. Noi mangiatori di plastica (la sequenza iniziale del bambino è da Oscar), noi invasati di chirurgia perché non proviamo più dolore, come fossimo corpi vuoti in una specie di allegoria su cosa sia diventata la fruizione cinematografica oggi e forse l'arte tutta. Cronemberg torna al body horror e lo fa con maestria, in un continum con quel suo Videodrome passando però per Crash ed Existenz. Viggo Mortensen è sofferente (era tra l'altro gravemente ferito durante le riprese), rigoroso e sembra come la morte del settimo sigillo di Bergman; le sue due bravissime e bellissime spalle compongono un gioco erotico futuristico a cui, sono sicuro, si tenderà in futuro. Si può tornare a fare cinema, arte, anche fosse solo per un tempo limitato. Capolavoro! 9/10

15 Novembre 2009

Vorrei di nuovo i cinema pieni.

Ieri sera sono andato a vedere "Parnassus", l'ultimo lavoro di Terry Gilliam ed in sala eravamo sette persone me compreso. E dire poi che si trattava di un film sublime, girato con stile e capace di regalare due ore e passa di trip emozionale. La pellicola mi ha portato fuori dalla realtà e la mia lieve influenza mescolata con il gelo della sala hanno fatto il resto.
Per me film ha sempre coinciso con Cinema. Devo essere immerso nella sala, sovrastato da uno schermo più grande di me e urtato da altra gente.
Mi dicono che ora i film si vedono sul cellulare ed io non vorrei crederci.
Siamo davvero scesi così in basso?
In questa stagione tutte le volte che sono andato al cinema ho condiviso lo spazio con al massimo altri dieci superstiti, per la maggior parte uomini o donne sulla cinquantina. Ma i giovani?
Voglio teenagar brufolosi, universitari con le braghe calate, ragazzi che pomiciano nei cessi e belle donne che prendono appunti dalle prime fila.
Non so se queste sale vuote siano una prerogativa di Viterbo. Magari i ragazzi più giovani si dirigono in qualche multisala della capitale per vedere le nuove pellicole; potrebbe essere un problema di cinema obsoleti. Però a me le sale cinematografiche viterbesi piacciono nella loro decadenza, sono così bohemien. I multisala mi hanno sempre dato l'idea degli alberghi ad ore, di qualcosa di arido ed insensato.
Mettiti il preservativo, paga il conto, saluta una donna che non rivedrai più.
Forse io sono un caso a parte ma i cinema moderni non mi piacciono proprio.
Comunque, ritorniamo ai giovani perché io ormai non mi sento più facente parte di questa categoria, certo anagraficamente lo sarei anche ma la verità è che sono nato vecchio.
I giovani di oggi sanno ascoltare un disco dall'inizio alla fine senza interruzioni e senza chattare con l'amichetto di turno?
Leggono libri senza la televisione accesa come sottofondo e senza cuffie nelle orecchie?
Al cinema spengono i cellulari?
Ma quanti vanno al cinema?
E i fumetti? Quanti collezionano, leggono e amano opere a fumetti?
Domande, sempre queste maledette domande e mai nessuna risposta che mi viene a far visita nel buio di questa mia casa di campagna.

19 Settembre 2019

C’era Una Volta a... Hollywood (2019)

Tarantino è una forza della natura, subisce innamoramenti continui e questa volta stravede per due ragazzi di destra, reazionari, zoticoni, insomma Rick Dalton (Di Caprio) e Cliff Booth (uno strepitoso Brad Pitt) usciti dalla seconda guerra mondiale per fare uno l’attore e l’altro la sua controfigura.

Questo è un film bellissimo che parla dell’eterno ritorno, una fiaba moderna dove i nostri beniamini da principi diventano un po’ straccioni, perché nei 6 mesi di quel 1969 dove il film è ambientato cambia tutto, Hollywood certo, ma anche il mondo.

C’è una nuova dinastia che sta arrivando, forse influenzata dal 68 Francese, un’élite in cui un polacco, ebreo, basso e brutto (Polanski) sposa la donna più bella del cinema e fa i soldi con un film satanista (Rosemary’s).

La donna è più alta dell’uomo, l’America va verso la Polonia e la vecchia Hollywood anche se abita ad un civico di distanza non si orienta più ed è bravissimo in questo senso DiCaprio ad interpretare questo stato d’animo, questa malinconia dei tempi andati.

Un film sul doppio, sul lavoro, sulla nascita di una star (che nella realtà non nascerà mai) e sul declino di un’altra, con un Pitt che però soffre meno di DiCaprio, perché lo fa da una vita, cade (simbolicamente anche sul set) ma è abituato e il dolore non lo sente quasi più ed è sempre pronto a rialzarsi. Un capolavoro!

Paul Weller - True Meanings (2018)

Paul Weller arrivato a compiere 60 anni lo scorso anno non ha proprio intensione di replicare se stesso e riecheggiare i fasti di una carriera che per certi versi è stata grandiosa, sopratutto dal punto di vista artistico.

"True Meanings" suona incredibilmente retrò ma anche tremendamente onesto. Si capisce benissimo che Weller questa volta abbia deciso di incidere brani che avrebbe potuto anche tenere per se e per i propri cari, magari suonandoli di nascosto nella propria casa. Album estremamente personale ma di altissimo livello compositivo, acustico nei suoni, con perle come "Bowie" (dedicata al Duca Bianco) e "What Would He Say?" swing sorretto da un testo notevole. E' proprio nella parte lirica che il lavoro appare nella sua grandezza e profondità, infatti testi ispiratissimi fanno da contraltare ad una musica che questa volta si fa davvero minimale anche per esaltare il più possibile le qualità canore, ma sopratutto interpretative di Paul.

ll lavoro mi ha per certi versi ricordato il bruttissimo "If on a Winter's Night... (2009) di Sting anche se qui siamo su tutt'altri livelli. Non aspettatevi le frenesie sonore che il primo di Mood ci ha regalato in passato, piuttosto una preghiera lunghissima su quanto sia importante la creatività e la musica in questi anni così aridi.

3/5 anche di stima.

11 Novembre 2018

Reservoir Dogs Soundtrack (1992)

Dopo 26 anni da quell'incredibile esordio torno a parlare del primo capolavoro di Tarantino, da noi uscito con il titolo "Le Iene" e che rimane per me insieme a Jackie Brown il capolavoro a volte sottovalutato di Quentin che dopo la sua prima trilogia non riuscità più a ripetere i fasti iniziali.

La colonna sonora del film è un'autentica perla, come quella di Pulp Fiction d'altronde, dove si sente tutto l'amore del regista per quelle atmosfere fumè degli anni 70 come nella cult-issima Little Green Bag di George Baker Selection e Magic Carpet Ride di Bedlam.

Un film notevolissimo che ha influenzato tantissimo cinema a venire e che in qualche modo riuscirà a sdoganare la violenza, l'avantpop, i dialoghi sfrontati e barocchi, il forte humour nero e la cronologia frammentata che saranno poi il marchio di fabbrica anche di Pulp Fiction.

Insomma musica da ascoltare ad alto volume, ovviamente in vinile con un impianto valvolare e parecchio alcol nel sangue.

10 Agosto 2018

Bullet Head. Regia di Paul Solet 2017

Devo essere sincero ma in questo Agosto ero alla ricerca, quantomeno inconscia di un bel film dai connotati Pulp che potesse diventare un classico almeno nella mia testa. "Bullet Head" di Paul Solet che aveva esordio qualche anno fa con l'horror "Dark Summer" (che a me non era piaciuto molto) questa volta fa davvero centro e ci regala una pietra miliare del genere che sono sicuro rimmarrà nel tempo (da noi mi pare non sia stato neanche distribuito nelle sale ).

Supportato da un cast eccezionale (Adrien Brody, Antonio Banderas e John Malkovich) il film parte molto simile a "Le Iene" di Tarantino dove tre rapinatori in fuga si rifugiano in un fabbricato abbandonato per far perdere le loro tracce. Tutto apparentemente normale fino a quando si accorgeranno che nell'edificio in questione è "parcheggiato" un cane da combattimento che darà loro la caccia (e non voglio spoilerare altro). C'è da dire che il film oltre ad essere girato da dio, fa veramente "cagare sotto" dalla paura pur non essendo affatto un film horror, però si vive costantemente con questa ansia che da un momento all'altro il cane possa uscire da qualche angolo di inquadratura e fare secchi i nostri beniamini.

Per certi versi la pellicola mi ha ricordato il bellissimo e insuperabile "Cane Bianco" di Samuel Fuller pur non avendo, ovviamente, la stessa carica politica.

Insomma sintetizzando il tutto in una parola: compratelo!

27 Agosto 2018

Marauder - Interpol (2018)

"Turn On The Bright Lights" è stato un capolavoro assoluto, capace di farmi tornare ai tempi dei Joy Division senza però sfociare in un effetto revival fastidioso. Ricordo ancora il giorno che acquistai il cd all'undergrond di Viterbo e lo ascoltai di continuo per mesi interi. Gli altri lavori della band mi hanno convinto a metà e comunque mai sono riusciti a farmi tornare ai fasti di quel meraviglioso esordio. "Marauder" è però tutt'altro lavoro rispetto alla scialbezza dei lavori predenti, registrato in analogico (finalmente) e prodotto da quel genio di Dave Fridmann il disco già dal primo singolo "The Rover", potentissimo e struggente, riesce a stupire sopratutto nella parte ritmica, ispiratissima e innovativa. "Number 10", il secondo singolo, ci riporta agli Interpol più classici, quelli del primo disco per intenderci ma è solo un breve ritorno perché l'album suona diversissimo da quel mood, più contemporaneo ma sempre di altissimo livello. Stupendi i due video usciti, quello di "The Rover" ma ancor più significativo "If You Really Love Nothing" con protagonista Kirsten Stewart. Un capolavoro del tutto inaspettato per una band che non vuole scomparire in questi anni di musica usa e getta.

20 dicembre 2019

Some Great Reward (1984) Depeche Mode.

Uno dei dischi più belli dei @depechemode ma anche uno dei più sottovalutati, forse il loro vero capolavoro uscì nel 1984 e fu il secondo album che acquistai dopo il fiacco A Broken Frame (credo nel 90!).

Il lavoro fu forse il primo ad essere composto senza pensare realmente ai singoli, il tutto ha una forma più omogenea, quasi da concept con brani manifesto del calibro di #blaspemousrumours #peoplearepeople e la sadica e struggente #masterandaervant . Le ritmiche sono qui più tempestose, industriali e gli arrangiamenti scritti da Wilder (con il fido supporto di Daniel Miller) toccheranno vette di pura poesia elettronica come nel caso della famosissima #somebody .

Nello stesso periodo i Depeche Mode pubblicarono come singoli la malinconica ed esistenziale #shakethedisease (1985) e #flyonthewindscreen (1985) che rimane ancora oggi un capolavoro di esistenzialismo spleen che andrà a comporre insieme all’onirica #stripped il successivo Black Celebration, l’ultimo lavoro curato personalmente da Daniel Miller.

 

25 Novembre 2018

Joy Division - Unknown Pleasures (1979)

Ogni tanto, per forza di cose bisogna tornare su qualcosa che è stato seminale, importantissimo, imprescindibile. E' chiaro che per me i Joy Division rappresentano quel punto, che insieme The Cure, Japan, Depeche Mode i primi R.E.M. e roba molto più oscura come Bauhaus, Suixi And The Banshees va a costituire la linea immaginaria della mia musica preferita di tutti i tempi, ovvero la New Wave e il Post-Punk.

I Joy Division pur se rappresentano l'apice della musica "esistenzialista" (anche per la prematura scomparsa del cantante Ian Curtis) hanno per me altri meriti, ovvero quello di aver ricercato nella timbrica del suono qualcosa che ancora oggi impressiona e ispira.

I Joy Division (nome preso dalle baracche femminili dei campi di concentramento nazisti) emersero nel 1979 dalla città di Manchester e con il loro primo album Unknown Pleasures raggiunsero un apice compositivo e creativo che non bisseranno più ne con il successivo e bellissimo Closer e neppure con i progetti firmati New Order (più dance).

Il lavoro si apre con la stupefacente "Disorder" forse il loro manifesto ma l'intero lavoro non mostra mai battute d'arresto sfoderando una serie di capolavori da far sembrare questo disco quasi un best: " Day Of The Lords", " New Dawn Fades" la toccante " Atmosphere" giusto per citarne qualcuna.

Gli anni 80 trovarono i loro The Doors peccato che solo per un paio di anni.

Riposa sempre in pace caro Ian.

6 Luglio 2018

Oltre La Notte di Fatih Akin (2017)

Altro film che mi sento assolutamente di consigliare prima delle ferie estive è questo struggente e toccante "Oltre La Notte" ultimo lavoro di quel Fatih Akin che ci aveva stupito con il bellissimo Soul Kitchen uscito nel 2009 ma anche con la "Sposa Turca" del 2004.

Il film si ispira all'attentatto terroristico di Colonia avvenuto nel 2004 da parte di una cellula terroristica neonazista e in qualche modo si potrebbe pensare ad un altro "...Attacco Al Treno" di Eastwood ma qui siamo da tutt'altre parti.

ll film è durissimo, cupo e violento ma non nelle immagini, tutt'altro, si assapora una violenza interiore che più si va avanti nella visione e più penetra dentro lo spettatore. Il film l'ho dovuto vedere più volte perché Fatih Akin, il regista, sembra quasi non fare nulla di eclatante con la macchina da presa invece riesce a compiere un lavoro di sottrazione così grande che certe scene, certi sguardi, rimangono impressi per giorni e giorni e questo è sempre sinonimo di grandezza.

Certo il film vive della grandissima interpretazione della protagonista, una sempre bellissima Diane Kruger che dopo Bastardi Senza Gloria (Tarantino) e il significativo Autoreverse che in qualche modo la lanciò qui riesce a toccare altissimi livelli recitativi (sua e meritata la palma d'oro a Canes) e si amalgama alla perfezione con il minimalismo registico. Lei ha perso tutto quello che amava (figlio e marito nell'attentato) ma rimane un'eroina Rock (Queens Of The Stone Age in colonna sonora) e in qualche modo si adopererà nei tre atti del film (girati con tre stili diversi!) per la sua personale vendetta.

Golden Globe ma non Oscar (sticazzi!) "Oltre La Notte" va comprato e tenuto nella propria collezione anche solo per la bellissima scena finale che in qualche modo mi ha ricordato il miglior Kitano.

01 Aprile 2019

SCOTT WALKER (9 GENNAIO 1943 – 22 MARZO 2019)

In questi anni dove si guarda compulsivamente uno schermo di cellulare e a malapena si legge qualcosa che non sia però troppo impegnativa, troppo lunga, troppo tutto (il deficit di attenzione è una malattia ?!) Scott Walker appare ancor di più una figura mistica, irraggiungibile, quasi irreale. Proprio per questo la sua scomparsa è enorme e sarà come quella di altri grandi della musica dipartiti in questi anni, insostituibile. Purtroppo Scott Walker in Italia è quasi sconosciuto, la sua opera, in particolar modo la più recente e importante, è rimasta lontana ai più, qualcuno ricorderà sicuramente i Walker Brothers (i finti fratelli che volevano rivaleggiare con i Beatles), almeno qualche hits ma poi, quello che successo dopo, di grandissimo, è come il “deserto dei tartari”. Morti e sepolti i Brothers, gruppo che comunque ebbe grande successo (10 album in 3 anni tutti finiti nella TOP10), Scott decise di fare da solo e in qualche modo cercò sistematicamente di allontanarsi da quel successo da stadio che francamente non poteva andare a genio ad un bohemien raffinato, elegante, sorretto da una voce profondissima che rimarrà nella storia e ispirò tutti, soprattutto David Bowie. Siamo nel 1967 e Scott Walker dette alle stampe “SCOTT”, suo primo lavoro solista che cambiò non poco le carte in tavola. Chi si aspettava il sound “easy” dei Brothers ebbe qualche sussulto; debitore del suo mito Breal, “SCOTT 1” (come lo chiameranno in fans) vantava arrangiamenti orchestrali elaborati sostenuti da una voce incredibile, un crooner impossibile da emulare che fece breccia nel cuore di molti artisti a venire. La stessa cosa avvenne in “SCOTT 2” (1968), qui però il songwriting appare più elaborato e arriveranno così anche le prime hits: “The Girls From The Streets” (bellissima) e “Plastic Palace People”. “SCOTT 3”sancirà ancora una crescita artistica rilevante ma sarò il capolavoro “SCOTT 4” (1969) a suggellare in qualche modo la prima parte della carriera solista di questo fenomenale artista americano anti-americano. “SCOTT 4” anche se ancora debitore di Breal aveva arrangiamenti ben più complessi (alla Morricone) con ambientazioni incredibili descritti da liriche poetiche e profonde, quasi da gangster movie che vedevano prostitute e papponi inseriti in un’atmosfera quasi operistica. Dopo questi quattro capolavori Scott iniziò un breve declino che con il senno di poi era soltanto l’antipasto per un nuovo ed incredibile mutamento. “TILT THE BAND COMES IN” (1970) era più debole seppur sorretto dal capolavoro della tile track.“THE MOVIEGOER” (1972) è un disco di cover che aggiunge pochissimo e “STRETCH” (1973) è un bruttissimo disco country mentre “ANY DAY NOW” (1973) e “WE HAD IT ALL” (1974) sono veramente troppo fiacchi per essere considerati lavori del grande Scott Walker. La metamorfosi però era iniziata, il germe delle tenebre che aveva ossessionato Scott fin da bambino si stava impossessando della sua arte. Nel 1975 la reunion dei Walker Brothers con “No Regrets” fu per me sorprendente a partire dalla title track per passare poi al pazzesco “NINE FLIGHTS” del 1978 che influenzò anche Bowie che coverizzò la tile track in “Black Tie White Noise”. Dopo il sorprendente ritorno con i fratelli di sempre, Walker si isolò per anni per risolgere non dalla tenebre ma nelle tenebre con il bellissimo e cupissimo “CLIMATE OF HUNTER” (1984) che in qualche modo iniziò l’ultima parte della carriera di Walker trasformandolo in artista di pura avanguardia. “CLIMATE OF HUNTER” rispetta ancora un’idea di forma canzone, cupissima, ispirata ma totalmente funerea. Passarono ancora molti anni e nel 1995 uscì “TILT”, capolavoro assoluto, indipendente nella sua natura, quasi un insieme di patterns melodici e astratti accompagnati da un canto malinconico e gregoriano come nella sublime “Farmer In The City”, l’apocalittica “The Cockfighter” e la distorta e ipnotica “Tilt”. La funerea “Bolivia 95” è per me uno dei pezzi più importanti degli anni 90.Il disco non lo comprò nessuno, capita, ai capolavori! Dopo 11 anni da “TILT” nel 2006, prodotto dalla mitica 4AD, etichetta simbolo delle avanguardie sonore, esce “DRIFT” il lavoro che ho amato di più per varie ragioni. Scott Walker si pone una domanda:“perché fare ancora canzoncine pop quando ce ne sono a milioni?”Walker qui si trasforma in un compositore classico, espressionista, quasi uno scultore del suono che per certi versi me lo avvicinò, in questo periodo, ai Nine Inch Nails. In questo lavoro, per me grandioso c’è tutta la psicosi dell’attacco terroristico dell’11 settembre. I brani sono tutti fenomenali e il lavoro andrebbe studiato e scrutato a dovere. “BISH BOSH” (2012) riprende a tratti le atmosfere di Drift ma in chiave molto più orchestrale e SOUSED (2014) con i SUMM O))) ancora oggi per me rappresenta un labirinto sonoro che seppur stroncato dai più ancora affascina e ispira. Ne sono sicuro, lassù Scott starai in buona compagnia.

Luca Bartoli

20 Maggio 2022

The Batman – Regia: Matt Reeves

Siamo di fronte ad un Batman davvero notevole, forse il più fumettistico nel senso che è il più aderente ad albi spettacolari come “Città Spezzata” “Batman Hush” e “Il Lungo Halloween”, insomma opere realistiche ed investigative, quasi noir. In realtà abbiamo anche piccole citazioni ai film di Nolan ma anche ai Batman di Burton ma soprattutto c’è un occhio strizzato alla bellissima serie videoludica soprattutto nei combattimenti che sono presi a piene mani dal videogioco. Ci sono anche personaggi riuscitissimi e quasi horror: l’enigmista è inquietante e sembra quasi collegarsi allo Zoadiac di David Fincer ma soprattutto c’è Robert Pattinson che aveva dato grande prova recitativa già in quel capolavoro di The Lighthouse e qui dona all’eroe DC la migliore versione possibile. Triste, cupo, depresso quasi dissociato in un film dove Bruce Wayne si vede pochissimo per lasciare spazio alla sua controparte mascherata. Quindi un film super realistico da una parte ma aderentissimo alle opere fumettistiche, un noir moderno ma in costume. Quando Wayne non indossa la maschera non riesce a rapportarsi con le altre persone e questo è semplicemente stupendo! Pattinson è perfetto con quegli occhi sperduti, quello sguardo malinconico e forse spaventato, una prova commovente che eleva il film almeno ai livelli del “Cavaliere Oscuro”, per me inferiore soprattutto se prendiamo in esame la storia, qui di tutt’altro spessore. Anche il rapporto tra Batman e Catwoman è ben riuscito perché non risulta mai stucchevole e soprattutto lei è inserita profondamente all’interno della storia ed è molto caratterizzata come lo è Gordon, che fa squadra con Batman come due veri detective anche perché nei fumetti viene ripetuto spesso “Batman è il miglior investigatore del mondo” e quest’aspetto nei film precedenti non era mai stato trattato.Un film che ti porta nel mondo torbido e corrotto di Godam City dove anche il pinguino di Colin Farrell pur se non molto presente è ben interpretato e funzionale alla storia (uscirà uno spin-off su di lui). Certo ci sono delle cose che potevano essere gestite meglio come il finale, il personaggio di Alfred, ma si tratta di piccole cose in un universo quasi perfetto che ti fa attendere in maniera spasmodica l’uscita di un nuovo episodio. Quasi un capolavoro. 8,5/10

14 Novembre 2018

David Lynch e Angelo Badalamenti non hanno certo bisogno di presentazioni, le loro collaborazioni sono state sempre molto interessanti creando un immaginario sonoro perfetto per le pellicole del cineasta americano.

Questo "nuovo" progetto intitolato "Thought Gang" è stato chiuso nell'armadio per oltre 25 anni e questo è stato un peccato perché dopo "BlueBob" è sicuramente il Lynch più convincente a livello musicale.

Il lavoro si snoda su sonorità free jazz ovviamente inquietanti che suonano estremamente moderne e non danno minimamente all'album l'aspetto di un disco dei primissimi anni 90 (sarà stato probabilmente re-mixato).

Uscito circa due settimane fa il lavoro mi ha sorprendentemente spiazzato dalla non eterogeneità delle tracce che vantano dei momenti alla Tom Waits alternati a un Jazz da strada quasi alla Suicide. Che dire, ormai va di moda ma Lynch è sempre Lynch ovvero un GENIO (non quelli di PopPorno)

10 Gennaio 2019

Velluto Blu R:David Lynch (1986) per forza nella mia #top5

Dal buio di notti dalle cosce spalancate, una voce angelica muore d’amore. Il suo canto vola verso il blu e lo infrange diventando tenebra. Tende rosse avvolgono chi piange, chi sogna e chi forse è già spacciato, avvolgono qualcuno che urla e ride nella periferia, in un edificio fatiscente. Una storia d’amore e di mistero... si tratta di un tizio che si ritrova contemporaneamente in due mondi diversi, uno piacevole, l’altro oscuro e terribile.

David Lynch qui segue la sua musa e amante, una donna triste, malinconica, sottomessa e perversa e viene attratto dalla sua decadenza così le regala un dipinto, Blue Velvet, che racconta di desiderio e follia come due facce della stessa medaglia. È nell’ombra che vuole dipingere Lynch che qui ritorna alle sue ossessioni in modo sempre più provocante è controverso. Capolavoro!!!

 

25 Maggio 2018

Quando vidi "Eraserhead" registrato dalla trasmissione di Ghezzi "Fuori Orario" ne rimasi folgorato, ero molto piccolo e in quel preciso istante iniziai a girare e a scrivere le mie cose. C'è stato un tempo in cui Lynch era tutto per me, riuscii anche a contattarlo perché scoprii che aveva realizzato una macchina per curare il "moto perpetuo". Io non riuscivo, non riesco, a stare fermo, devo muovermi in continuazione un pò come Ian Curtis dei Joy Division. Fu però "Velluto Blu" a darmi la botta definitiva perché era tutto quello che mi serviva di vedere in quel momento specifico della mia vita (1993) e quando uscì Strade Perdute, da noi in Italia nel 1998 andai a vederlo credo 30 volte di seguito. L'estetica di Lynch non mi ha influenzato nel senso stretto del termine, perché in questi trent'anni di visioni non ho mai cercato di emulare il suo mondo e la sua cifra stilistica; Lynch è come se esprimesse con le immagini quello che anche io vorrei o sto esprimento, in una sorta di "CONNESSIONI" ripetute che mai più ho trovato nell'arte contemporanea. Una cosa del genere mi è successa anche con David Bowie, dove il mio modo di suonare la chitarra è stato sempre identico al suo, quasi sovrapponibile e irriconoscibile e anche qui non per esercizio emulativo. Ma è con Lynch che ho potuto toccare con mano, già in tenera età il potere delle "connessioni" e della non linearità del tempo e dello spazio, dove la materia viaggia, si unisce in luoghi e momenti precisi, lontani e vicini.

Nella vita mi colpisce tutto ciò che è "Lynchiano", sopratutto nelle persone, perché quando riconosco qualcosa di Lynch in qualcun'altro (molto raramente) è come se incontrassi davvero me stesso, il punto da dove scappare per tornare finalmnente a casa.

22 Giugno 2019

Bruce Springsteen - Western Stars (2019)

Il Boss ritorna e già dalla copertina si capisce dove andrà a parare questa volta, ovvero in un una sorta di western contemporaneo molto cinematografico che rimanda a molte sue opere passate e bellissime come Nebraska e The Ghost.. ma con delle differenze e delle attualizzazione notevoli. Non c’è la E-Street Band sostituita con una profusione di archi che ad un primo ascolto rendono l’opera un po’ lagnosa, ma superato questo scoglio (già per altro sperimentato in Walking On A Dream) il tessuto compositivo a volte si fa notevole.

I momenti più belli sono anche quelli meno prodotti e asciutti come la title track e la bellissima “Drive Fast”. L’opera cala molto di intensità nella seconda parte, si averte una stanchezza artistica ormai ventennale dove però spicca la bellissima “Moonlight Motel” il capolavoro che Springsteeen aspettava da anni.

26 dicembre 2019

Purple Mountains 2019

Siamo abituati a confrontarci con un'opera di schiacciante tristezza dopo che l'artista che l'ha realizzata ha raggiunto un posto migliore. Storie di depressione e disperazione sono più facili da accettare con la piena conoscenza del lieto fine. "Purple Mountains", l'ultimo album di David Berman, pubblicato 26 giorni prima di togliersi la vita all'età di 52 anni, non offre questo lusso. Un certo numero di riferimenti già a partire dai titoli delle canzoni sono inequivocabili: "I morti sanno cosa stanno facendo quando lasciano questo mondo alle spalle", da "Nights That Won't Happen", o "Non c'è modo di durare qui così a lungo" da "All My Happiness Is Gone ”- sembra spesso far riferimento a quello che sarebbe successo e quindi ci si sente emotivamente sopraffatti anche perché siamo davanti ad un capolavoro. Il miglior disco del 2019?

17-08-2018

DAVID SYLVIAN - SECRETS OF THE BEEHIVE (1987)

Praticamente uno dei dischi più importanti degli anni 80 e della "Pop" music in generale. David Sylvian, ex leader di quei Japan che avevano impressionato sopratutto con "Gentlemen Take Polaroids" alla sua terza prova da solista (sarebbe la quarta se si considera anche l'EP "Words With The Shaman") sfodera un capolavoro senza tempo, impressionante sotto molti punti di vista.

Il suono si fa più essenziale ma musicalmente siamo sempre su livelli stellari, merito Non dei musicisti coinvolti, semplicemente da pelle d'oca (Sakamoto, Mark Isham e David Torn) ma anche da composizioni raffinatissime e forse mai più così ispirate. Per dirla alla Scaruffi "ogni accordo e` un tesoro di emozioni, perfettamente incastonato nell'insieme. Anche il canto e` diventato piu' umano, colloquiale, intimo".

Sylvian mostra in quest'opera struggente una voce pazzesca, più da crooner abbandonando le note più alte a favore di una profondità che mai aveva espresso a questi livelli. Il sound è più acustico e meno sintetico anche se i synth ci sono ma suonano ancora oggi poco datati e originalissimi; le composizioni sono in bilico tra il jazz-rock e un pop di altissimo livello. I brani sono tutti memorabili "Orpheus" (la sua prima hit in cinque anni) "The Devil's Own When Poets", "Dreamed Of Angels", "Mother And Child" e la disperata e meravigliosa "Maria" giusto per citarne qualcuna.

"Secrets Of The Beehive" è un disco che se saprete scoprirlo vi accompagnerà per tutta la vostra vita. MERAVIGLIA.

Irvine Welsh si è formato nei pub inglese, luoghi di sottocultura dove abbiamo visto fiorire l’ultimo baluardo di cultura rimasta. Quentin Tarantino scrisse il suo “Pulp Fiction” proprio appoggiato in qualche locale o nella videoteca dove lavorava, gli stessi luoghi hanno ospitato gli artisti di strada che proprio mentre Irvine pensava al suo capolavoro nascevano fiorenti soprattutto a Londra, pensiamo a Banksy[1] e ai suoi molti seguaci o a Blek Le Rat [2]a Parigi. Il tutto è stato accompagnato dall’ultimo movimento musicale degno di essere chiamato tale, il trip pop[3]. Non è blasfemo affermare che i Massive Attack sono stati i Doors o i Velvet Underground degli anni 90.

Negozi di cd, videoteche a basso costo, pub scalcinati e cinema ricavati da vecchie fabbriche in disuso sono state la scenografia perfetta per tutti questi artisti che volenti o nolenti hanno vissuto l’ultimo baluardo di cultura analogica, quindi umana, che ha calpestato le nostra terra.

Con l’avvento di internet, ma soprattutto con gli smartphone è partita l’era del tutto connesso o peggio ancora del “like[4]” a tutti i costi. Se gli artisti che abbiamo citato fino a questo momento hanno prodotto le loro opere influenzati si dal tessuto sociale, ma liberi di farlo all’interno del loro spazio creativo tutto quello che è venuto dopo è stato solo una rincorsa spasmodica alla ricerca di un consenso, fugace effimero o comunque di livello spesso infimo.

Siamo davvero nell’era dei 15 minuti [5]di Warhol, lo siamo oggi, in un presente vuoto molto più di quando lo era il padre della pop art negli anni 50 che intravedeva si il futuro, predicendolo per carità ma di sicuro non vivendolo.

Morti i luoghi fisici abbiamo visto nascere queste cattedrali virtuali fatte di bit, posti dove tutti possono dire la loro, come Facebook ad esempio ma dove la democrazia appare più quella predetta da Alto Palazzeschi[6]: “la democrazia ha tutto l’aspetto di un astuto ripeto, non esiste nulla di così ingiusto nel dire che questo è uguale per tutti”.

Perché di fatto questa uguaglianza millantata si differenzia solo dal numero di visualizzazioni o di “like” e quindi lo spettatore da fruitore, forse critico, è diventato lui stesso creatore di questo “Mondo Capovolto[7]” alla Terry Gilliam alimentando di fatto un vuoto esistenziale che si fa di anno in anno sempre maggiore.

Le videoteche sono state sostituite dai servizi di streaming, non luoghi dove non solo non si può fare controcultura ma dove si sta soli, come suoi social network dove i migliaia di amici sono in realtà soltanto bit, metacomunicazione, vuoto. E lo stesso trattamento ha subito la musica, il cinema e tutto quello che un tempo era fisico oggi sostituito da una controparte digitale che ha cambiato generi e connotati a tutto il mondo artistico contemporaneo.

Continuare oggi a parlare di scrittori come Irvine Welsh, dando valore al loro operato e anche al formato stampato, enfatizzando un modo “militante” e portarli quindi in contesti accademici dove troppo poco sono stati, non è soltanto un atto dovuto, ma resilienza esistenziale.

Morti i luoghi fisici, quasi tutti possiamo purtroppo dire, rimane solo la scuola anche se martorizzata e bistratta, come palestra non solo creativa ma anche di ribellione autarchica. Andrebbero rivisti i programmi ministeriali, inserire all’interno di modelli che almeno nel nostro paese si sono fatti drammaticamente vetusti opere postmoderne che possono reclamare ancora una volta la loro importanza, sociale e culturale.

Luca Bartoli

01 Giugno 2019

Non passare in radio un album del genere è criminoso! E' possibile separare l'artista, tra i più importanti della musica britannica, dall'uomo, per molti discutibile?

Morrissey - California Son (2019)Un grandissimo ritorno discografico quello di Morrissey che aveva deluso ultimamente con album piatti e privi di quel patos anche puramente interpretativo che lo aveva contraddistinto fin dagli esordi. California Son è un album di cover ma badate bene, qui c’è grande arte a partire dai bellissimi arrangiamenti e dalla scelta delle songs (mai una hit) interpretate divinamente. È un peccato che un artista di questo calibro non venga passato in radio per le sue invettive razziste, l’arte dovrebbe essere lontana da tutto questo. Canzoni brevi, grande musica quasi esagerata per questi tempi magri e un ritorno in grande stile per uno dei più grandi artisti degli anni 80..

14 settembre 2019

Free – Iggy Pop (2019)

Io ho sempre amato il fottuto Iggy Pop, tanto. Non solo i due bellissimi dischi prodotti da Bowie ma anche roba più ostica come “Soldier” e quel capolavoro di “Kill City” mai troppo citato. Poi la sua roba recente è fantastica, il precedente “Post Pop Depression” ad esempio ma anche “Avenue B” del 1999 che in qualche modo si potrebbe avvicinare a questo bellissimo nuovo disco, “Free” per l’appunto.

Come in “Avenue B” qui Iggy Pop cambia registro e piuttosto che riprendere in mano chitarroni in stile punk-rock o un crossover sempre ispiratissimo decide di immergersi in quel capolavoro ultimo di “BlackStar” dell’amico Bowie.

C’è tanto jazz in “Free”, tanta ispirazione artistica e una scrittura concreta di livello assoluto.

8 brani che non smettono mai di sorprendere, piacevoli che compongono un lavoro che sfiora quasi lo status di capolavoro.

2 Settembre 2018

Don't Worry - Regia di Gus Van Sant (2018)

Parte della stampa specialistica ha definito il film "carino" ma nulla di che, perfetto, fatemi il favore non leggete più certe testate perché ormai è chiaro che di cinema molti non capiscono davvero nulla!

Il grande Gus Van Sant mette in scena un capolavoro che poteva tranquillamente cadere nel tranello del filmetto strappa lacrime con il dramma esistenziale (qui anche con l'aggiunta dell'invalidità fisica) a fungere da sfondo in stile "Wonder". Ma stiamo parlando di Gus Van Sant, ve lo ricordate il sorprendente "Last Days" (2005) anch'esso stroncato? Insomma di un artista immenso che decide di raccontare a suo modo la storia di John Callahan, fumettista di Portland, Oregon, alcolista rimasto paraplegico per via di un terribile incidente d'auto.

Il film apparentemente segue le solite tappe del genere fatte di fisioterapia, innamoramento della crocerossina di turno, riunioni con alcolisti anonimi in un una discesa e risalita al successo tanto scontata quanto ormai insopportabile. Ma non è attraverso queste trame che il film va visto!

Il binomio Van Sant / Joaquin Phoenix (sempre più immenso) qui riesce a toccare vette di vero CINEMA, in una messa in scena finalmente più essenziale del solito capace di far esaltare la bravura immensa dell'attore protagonista e del fenomenale co-protagonista Donnie (Jonah Hill), il suo sponsor-zen degli Alcolisti Anonimi, nella sua migliore interpretazione di sempre.

Il film, girato benissimo, riesce con la dignità di una vera messa in scena a far sprofondare nell'abisso lo spettatore e a tirarlo fuori dal baratro dando finalmente il giusto valore sociale al CINISMO e alla satira ormai inesistente, almeno nel nostro paese.

Interessante l'idea di usare all'interno del film le vere opere di John Callahan in un collage riuscitissimo e a tratti commovente.

Un capolavoro che vive di vera regia, grandezza degli attori ma soprattutto nel non essere consolatorio a tutti i costi, anzi, è proprio nella rabbia del protagonista, nel cinismo appunto, che lo spettatore viene finalmente trattato con un essere senziente e non come una mera scimmietta.

Grazie ancora di cuore caro @gus_van_sant

23 settembre 2018

STONE FOUNDATION - EVERYBODY, ANYONE (2018) IMPORT!!!

Se il nuovo lavoro di Paul Weller vi ha fatto venire il "latte alle ginocchia" o lo usate la sera come ninnananna è il caso che continuate a leggere questa recensione.

Gli "Stone Foundation" arrivano al quinto lavoro dopo l'incredibile album dello scorso anno "Street Rituals" che vedeva appunto Paul Weller cantare e suonare in tutti i 10 brani. Leggenda narra che lo stesso Weller abbia contattato gli "Stone..." impressionato dal loro lavoro e si sia proposto per suonare nel disco, il risultato fu impressionante, uno dei momenti più alti della musica "soul" inglese.

Questo nuovo album esce a distanza di poco più di un anno dal precedente e ci riconsegna un gruppo in splendida forma, forse, ancora più ispirato rispetto al lavoro precedente. Paul Weller c'è sempre ma qui partecipa "soltanto" al brano "Next Time Around", perla di fattura finissima.

Il sound della band è fortemente ereditato da quello degli Style Council ovviamente con i dovuti aggiornamenti del caso e del tempo, quindi troveremo un "suol-jazz-pop" di altissima fattura che farà impazzire tutti coloro che hanno amato "Caffé Bleu" (me stesso) e che considerano la seconda incarnazione di Paul Weller il suo punto più alto.

"Next Time Around" (duettato con Kathryn Williams) è per il momento il brano che mi ha impressionato di più per un album che non risente di battute d'arresto con i suoi fiati mai pedanti ma azzecatissimi all'interno di arrangiamenti ricchi, voci pazzesche come da tradizione soul e testi davvero ispirati.

Album comprato in vinile e suggerito dai grandi di Pink Moon Records che ringrazio sempre, scandalosamente non uscito in Italia che però per fortuna sta avendo un buon successo in patria.

26 settembre 2018

Leaving The Dream - Slash feat Myles Kennedy & The Consipirators (2018)

La collaborazione tra Slash e Myles Kennedy, lo dico da anni, è una delle cose più interessanti che il rock abbia partorito negli ultimi tempi, già il disco del 2014 (World O Fire) mi aveva portato indietro nel tempo a quel sound hard-rock grezzo che tanto avevo amato in gioventù.

"Leaving The Dream" pur se fedele al suo predecessore si innalza ancor di più non tanto a livello compositivo ma proprio per l'incredibile amalgama dei due pargoli. C'è da dire subito che il leader degli Alter Bridge non ha quel mood blues che aveva caratterizzato i primi Guns (con Axl perfetto in quel ruolo), però qui riesce ad incastrare la sua voce (più delicate e tecnica) all'interno di riff e assoli che sono il marchio di fabbrica del nostro beniamino con il cilindro in testa.

Già il brano d'apertura "The Call Of The Wild" è una bella dichiarazione d'intenti e ci fa capire quanto Slash (Saul Hudson all'anagrafe) sia migliorato tecnicamente dai tempi gloriosi dei Guns.

La band "The Consipirators" è solida e garantisce una parte ritmica degna di un grande album hard-rock, riuscendo ad essere essenziale come nella bellissima " Sugar Cane" (costruita interamente su un semplice giro rock) senza sfociare nella plasticosità e nel posticcio tipico di questi anni e di certi revival.

Che dire, come sempre un bel vinile da aggiungere alla mia collezione che mi darà la carica gusta in questi mesi lavorativi prima di intraprendere un nuovo viaggio.

6 settembre 2018

Iceage - Beyondless (2018)

Partire dalle più luride bettole di Copenhagen e arrivare poi nelle orecchie di tutto il mondo non deve essere stato semplice per questo gruppo punk-rock danese.

Elias Bender Ronnenfelt il frontman della band ha il volto angelico e rassicurante ma poi una volta davanti al microfono le cose cambiano parecchio e così la sua anima wild, un pò alla Iggy ammalia e contagia. I primi tre album erano affascinanti, freschi, tra le cose migliori che si potessero produrre nel punk di questi tempi. Poi le accuse di nazismo e altre storie controverse hanno infiacchito il gruppo che si è anche trasferito negli States.

Bayondless pur non avendo la carica malata e rumorosa dei primi lavori riesce ad essere un buon lavoro che però rimane a metà strada e a tratti quindi per forza paraculo. "The Day the Music Dies" e la titletrack sono però di valore e vista la merda che gira di questi tempi, un lavoro del genere appare persino notevole.

10 novembre 2018

MUSE - Simulation Theory (2018)

I primi Muse erano davvero il top con quel loro suono potente, urgente ma mai banale. Possiamo dirlo oggi a 19 anni di distanza da quel loro incredibile esordio chiamato "Showbitz" (1999) ma ancor più dal successivo e mai superato "Origin Of Simmetry" (2001) che ci aveva fatto sperare che gli anni zero potessero essere davvero di qualità. Poi prove interessanti come il per me troppo sottovalutato "Black Hole And Revelation" (2006) dove i ragazzi hanno provato a cimentarsi con un hard-rock in stile Zeppelin.

"Drones" del 2015 era cervellotico e troppo arrangiato per i miei gusti ma si elevava comunque dalla diarrea cosmica di questi anni dove è fiorito un nuovo e penoso genere, la Trap.

"Simulation Theory" uscito ieri mi ha lasciato basito già a partire dall'artwork che cerca di condensare un'atmosfera alla Blade Runner e Ritorno Al Futuro riuscendo però a somigliare di più a Stranger Things e la cosa non depone per nulla a favore del progetto.

La cosa che però a noi interessa è la musica e dirò subito che in questi 40 minuti qualcosa di valido c'è, però tutto suona tremendamente POP e a tratti scontato: "Algorithm" la traccia d'apertura ricorda i Queen (oddio) e "The Dark Side" malgrado una buonissima base dance non riesce ad emergere come avrebbe potuto. "Pressure" e "Propaganda" sono tra i momenti più bassi dell'intera produzione della band.

Il lavoro migliora però nella seconda parte dove una buonissima "Blockades" e soprattutto una conclusiva "The Void" innalzano di parecchio un lavoro che imbarazza e fa riflettere: se anche i Muse si sono ridotti a questi livelli allora la situazione è davvero preoccupante!

19 novembre 2018

MARRIE LAND - THE GOOD, THE BAD & THE QUEEN (2018)

The Good, the Bad & the Queen ovvero il supergruppo di Damon Albarn composto da Paul Simonon (lo storico bassista degli indimenticabili Clash…sì, proprio quello immortalato sulla copertina di “London Calling”), Simon Tong (chitarra e tastiere nei Verve per una manciata di anni, e poi collaboratore di – vedi un po’ – di Blur e Gorillaz) e, infine, dal batterista nigeriano Tony Allen (a lungo a dare vita al meraviglioso universo afrobeat di Fela Kuti) insomma "la crème de la creme".

Questo secondo album esce ad undici anni dal precedente e bellissimo lavoro omonimo e diciamolo subito pur essendone inferiore rimane davvero un lavoro coi fiocchi che vede tra le altre cose Tony Visconti alla produzione del tutto.

I brani sono davvero buoni sopratutto la title track, dove un sound analogico quasi da spaghetti western fa da cornice a dei testi ispiratissimi e politici. Albarn ha detto che non è un disco contro la brexit,voi ci credete? chapeau!

14 ottobre 2018

Echo and the Bunnymen - "The stars, the oceans & the moon" (2018)

Una delle mie band preferite di tutti i tempi torna a farsi sentire con un nuovo lavoro discografico a 4 anni di distanza dal precedente e riuscito "Meteorites".

Leggendo la tracklist del lavoro ci si accorge immediatamente come "The stars, the oceans & the moon" sia un best con due inediti, quindi la domanda sorgerebbe spontanea, perché parlarne? Facile, i brani classici degli Echo.. sono stati qui arrangiati, suonati e cantati nuovamente e il lavoro, per me sorprendente, offre nuovi spunti e colori a canzoni che sono state d'ispirazione per moltissimi, Coldplay e Killers su tutti.

Il lavoro più grande che Andy Wright alla produzione ha apportato ai brani è stato quello di spostare il sound dal post-punk degli esordi ad un rock più da camera con pianoforte e sezione d'archi, questo potrebbe anche far pensare alla diarrea più convulsa ma non è così perché Ian McCulloch con la sua voce forse ancor più bella riesce ad impreziosire e non poco canzoni che di fatto sono dei capolavori assoluti. Un'operazione tra l'altro che ci ricorda quanto nella musica sia importante il songwriter al di là del vestito che poi si decide di applicare.

I due inediti purtroppo non impressionano ma la produzione sonora è talmente di alto livello che insomma, se non avete gli originali "Ocean Rain" e "Porcupine" (come minimo) l'acquisto di questo doppio LP è per voi obbligato.

4 maggio 2018

L'ISOLA DEI CANI - Wes Anderson

I cani portatori non si sa bane di quale malattia vengono esiliati su un'isola, premessa assurda, alla Wes Anderson appunto ma neppure troppo se si pensa a quello che successe nel periodo fascista.

Chiariamo subito una cosa: il film non può essere visto in Italiano! Putroppo come succede SOLTANTO nel nostro paese nella traduzione il titolo cambia completamente (I Love Dogs in originale) e il doppiaggio devasta un'opera che ha come punto di forza proprio i dialoghi interpretati da attori famossimi che qui a tratti rasentano il sublime (Scarlett Johansson su tutti).

Anderson come in tutte le sue opere enfatizza lo stereotipo della divisa, l'atteggiamento, il macchiettistico farcendo il tutto con un'ironia marcata a cui si perdonano anche certe uscite razziste.

Interessante la scelta di usare lo stop-motion che a me ha riportato a livello visivo ad un certo modo di fare videogame negli anni 90, ma sopratutto mi ha riportato anche alla memoria molte cose orribili che noi essere umani abbiamo partorito nella nostra storia.

Film ambientato in un giappone del futuro apocalittico e sorretto da una colonna sonora che molti troveranno disturbante ma che a me è piaciuta tantissimo.

Il film è notevole a livello visivo, bellissimi alcuni passaggi disegnati a mano che però soffre di un'eccessiva lunghezza che renderà l'opera stucchevole per tutti i detrattori del nostro beniamino. Fantastic Mr. Fox e Grand Budapest probabilmente stavano su un altro livello soprattutto a livello di sceneggiatura, qui davvero debole; insomma un Wes Anderson minore che però si eleva, ripeto, per una colonna sonora di un altro pianeta che da sola vale il film!

HEAVEN UPSIDE DOWN (2017) - Marilyn Manson

Marilyn è un genio nel descrivere il declino della società americana, travestito da mostro ha sempre avuto successo più per l'aspetto che per la sostanza ed è un male perché Brian (nome di battessimo) è molto più acuto e profondo di quanto si pensi. Parlandoci Marilyn ha descritto questo “Heaven upside down” come un mix di Hard, punk-rock, Killing Joke, Joy Division, Bauhaus, “Scary Monsters”insomma un ritorno alle origini.

Secondo Manson il cuore del disco è rappresentato dagli otto minuti di “Saturnalia”,scritta per la morte del padre, toccante e sorretta da un songwriting profondo.

Il reverendo in questa sua decima fatica punta tutto sul sound, potentissimo e a volte carico di riff di livello come nella splendida “Revelation #12” che sarebbe potuta stare anche nel suo capolavoro "Hollywood".

Un album questo che pur non essendo un capolavoro coinvolge e costringe l'ascoltatore a cercarsi un impianto stereo degno di questo nome e che alla fine vede Brian incatenato da sempre alla stessa ciotola di vomito, fra echi new wave spazzati via da rumori industrial (“WE KNOW WHERE YOU FUCKING LIVE”, un titolo urlato, scritto tutto in maiuscolo), pezzi vagamente ballabili e sexy (“Kill4me”) e giochi di parole fra “Say10” e “Satan”, cosicché il ritornello della canzone suona come “Tu dici Dio, io dico Satana”. Non male!

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24 settembre 2017

SEVEN SISTERS R:Tommy Wirkola (2017)

Film davvero interessante che nonostante alcune ingenuità e qualche scivolone nella sceneggiatura è riuscito a conquistarmi con quel mix di fantascienza commerciale e scene action molto anni 80. La trama è molto semplice: in un futuro dispotico molto Orwelliano una legge mondiale vieta alle coppie di avere più di un figlio! La solita corporazione piena di cattivoni darà la caccia ai figli in eccesso per ibernarli in attesa di un futuro migliore. E fino a qui il film potrebbe anche essere la solita cazzata ma per fortuna non è così e per vari motivi. Il primo è grazie al regista, perché Wirkola norvegese che aveva esordito con Dead Snow (gli zombie nazisti ve li ricordate?) da grande appassionato di Raimi ma anche Bava mette in scena un lungometraggio che abbandona la "plastica" del cinema degli ultimi anni e riesce nell'impresa di essere visivamente credibile, sudicio e in qualche modo anche pulp. Altro merito poi è della per me bellissima e bravissima Noomi Rapace che aveva incantato tutti con la trilogia Larssoniana iniziata con "Uomini che odiano le donne". Qui non è solo l'eroina del film ma di fatto monopolizza ogni inquadratura visto che interpreta le 7 sorelle gemelle (del titolo) che dovranno sfuggire appunto ad una caccia sfrenata che nella seconda metà dell'opera si farà incessante.

Se gli sviluppi della storia sono abbastanza scontati e il colpo di scena finale è davvero telegrafato, il film si muove su terreni molto diversi, la fantascienza appunto ma anche l'action (in alcuni momenti mi ha ricordato anche il primo Star Wars). Wirkola però condensando tanta roba tutta insieme riesce a mantenere un equilibrio ottimo (molto bella la scena di sesso a livello di regia) e ci consegna un lavoro che visti i tempi potrebbe anche diventare un classico.

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