Editoriale anzi no pensieri buttati un pò così...
Ci siamo pappati tutta una serie di inutile merda digitale, l'abbiamo voluta, da pionieri del bit ma poi abbiamo anche capito che la maggior parte di essa è inutile, stupida, ecologicamente assurda. Siamo davvero sicuri che vogliamo le nuove centrali nucleari di Google o Microsoft per alimentare l'intelligenza artificiale utile a mettere la mia faccia sul corpo di un gatto? Mi interessa una certa comunicazione da sito internet statico e non da social, un'economicità delle risorse perché con tanta potenza di calcolo ci faccio poco ed è utile solo per giocare a qualche gioco tripla A.
Sono anni che mi scaldo con una vecchia stufa a legna, certo sarà scomoda e non basta premere un bottone ma è divertente, come girare un disco in vinile e cercare un libro in formato cartaceo, meglio se usato.
In questo momento della mia esistenza, dove ho ripreso a correre tutte le mattine, leggere e guardare film come non mai ho quasi l'esigenza di scappare in un posto incontaminato, le Isole Canarie forse ma anche un qualcosa di inedito che mi possa riconnettere con la natura e la portabilità. Oggetti piccoli, una minuscola macchina fotografica, digitale per carità perché non è che la tecnologia sia tutta da buttare via, tutt'altro.
Creatività, pensare ad un mondo altro ma soprattutto inventare qualcosa che ancora non esiste, è quello che abbiamo sempre fatto dopotutto in un tumulto di sensazioni diverse che mi fanno venir voglia di iscrivermi a qualche gara podistica della domenica o prendere la Gravel e pedalare all'impazzata solo con una borsetta dietro la sella e andare, lontani dal conformismo e dall'ignoranza.
I giornali sono così così ma a volte vanno comprati e letti, se poi mi imbatto in inutili volgarità fatte di riti pagani, esoterismo da quattro soldi, finta arte, immondizia spacciata per chissà cosa allora penso che non abbiamo capito niente.
Studiamo, ma facciamolo veramente per liberarci dalle atrocità e dalle mediocrità.
Giurato Numero 2 – R: Clint Eastwood
Nonostante i suoi novant’anni e rotti Eastwood ci regala una nuova opera ispiratissima e per certi versi atipica che si va a collocare tra le grandi pellicole del regista americano, innalzando sicuramente il livello rispetto alle sue ultime produzioni che erano si buone ma non eccelse come i lavori passati.
Diciamo subito che i personaggi anche quelli secondari e i relativi attori sono tutti centrati e bravissimi nella loro interpretazione soprattutto J.K. Simmons, monumentale nella sua parte di ex agente della polizia che sarà centrale per tutta la vicenda.
Il film è perfetto, uno dei lavori migliori di Eastwood degli anni 2000, messo in scena in modo magistrale su una sceneggiatura di ferro che non perde colpi nemmeno in un dialogo.
Clint lavora come sempre sui personaggi e già dalla prima scena ci fa subito capire di che pasta è fatto sembrando quasi un regista di vent’anni per la freschezza che mette in tutte le inquadrature.
La fotografia è pazzesca e riesce a spaziare dalla grande luminosità delle aule di tribunale per finire nelle scene notturne dove tutto appare quasi come un horror pieno di cupezza. Incredibile anche il lavoro fatto sulla psicologia di ogni giurato, dove tutti sembrano voler chiudere il caso per tornarsene alle loro vite di sempre mettendo quindi in crisi un po’ tutto il sistema giudiziario americano tutt’altro che infallibile.
Un film che in maniera intelligente gira al contrario, invece di farci scoprire quello che è successo ci mette dentro un universo fatto alla rovescia, dove la bravura è appunto non far scoprire a tutti quello che realmente è accaduto in quella notte omicida o presunta tale, dove una ragazza ha perso la vita.
Destino, dubi esistenziali, fato il tutto interpretato da un immenso Nicholas Hoult bravissimo nel cambiare sguardi e atteggiamenti nel corso di tutta la vicenda grazie anche ad un montaggio frenetico e sempre del ritmo giusto.
La giustizia non è sempre verità in una società che sbanda davanti a tematiche etiche sempre stranianti: è giusto far andare in galera un criminale innocente oppure un bravo ragazzo colpevole? Capolavoro.
The Substance - R: Coralie Fargeat (2024)
Ma siamo davvero sicuri che se dovessimo rinascere non commetteremo poi sempre gli stessi errori? Coralie Fargeat nella sua prima prova in lingua inglese sembra volerci porre questa e moltissime altre domande, mescolando in un mix incredibile di body horror splatter e citazionismo nemmeno troppo velato tutto quello che di brutto propone la nostra società e di conseguenza il mondo dello spettacolo. Edonismo, maschilismo una certa idiozia femminile che porta quest'ultime a sottoporsi a qualunque diavoleria chirurgica per sembrare più giovani.
Un'incredibile Demi Moore interpreta una stella dello spettacolo ormai caduta che per rimanere sulla cresta dell'onda si sottoporrà ad una specie di esperimento da cui nascerà una nuova se stessa, migliore e giovane in una sequenza disturbante in cui la schiena della Moore si aprirà in due come un quarto di bue e ne uscirà una copia ringiovanita, che inizierà però a commettere gli stessi errori di un tempo, quelli che l'hanno portata appunto ad essere sola dentro un appartamento lussuoso circondata dai suoi ritratti.
Una pellicola notevole, supportata da una fotografia magistrale, disturbante, psichedelica, forse uno dei migliori film dell'anno che seppur non perfetto ci rigale due ore e venti minuti di assoluto spettacolo.
Un film che critica l'edonismo pur essendo edonista, politico, degno delle migliori opere di Cronenberg che ci ricorda che il cinema non deve essere sempre consolatorio e facile. Non un capolavoro ma un'opera da vedere e capire. 8/10
MEGALOPOLIS - R: FRANCIS FORD COPPOLA
Coppola torna, finalmente direi, nelle sale cinematografiche con questa favola moderna, fantascientifica ma antica. Dopo dieci anni da Twixt bellissimo e quasi non distribuito in Italia scrive e produce (vendendosi anche parte dei suoi averi) questo Megalopolis, un'opera dispotica in cui gli americani hanno ormai conquistato il mondo e la capitale dove tutto succede è New Rome ovvero una New York degradata in balia di ricconi senza scrupoli che governano mentre tutto intorno a loro va in rovina. Adam Driver interpreta questo Cesar Catilina un brillante architetto premio Nobel che vorrebbe ricostruire la città partendo dalla sua invenzione chiamata "megalon", un materiale leggero, ecologico e rivoluzionario ma per farlo dovrà scontrarsi contro i vari cattivi di turno. Catilina inoltre è l'unico personaggio che ha il potere di fermare il tempo.
Non starò qui ora a descrivere trama personaggi o quant'altro, perché Megalopolis è un'opera che va vista in sala, assaporata, vista di nuova, comprata, collezionata e tramandata. E' uno di quei film che non solo rimarranno nel tempo ma che giustamente è stato stroncato da pubblico e critica in un flop sensazionale e annunciato.
Coppola nella pellicola mette veramente tutto se stesso in un intreccio amoroso, sessuale, famigliare dove invidie e gelosie, politica, arrivismo, sensi di colpa e quant'altro può essere frullato all'interno di un'opera che vuole parlare del suo autore certo, ma anche dell'essere umano, un film che parla di noi.
Francis costruisce un mosaico architettonico complesso mescolando sacro e profano, volgare e altissimo e lo fa non solo nella sostanza ma anche a livello puramente visivo, citando tantissimo: Ben Hur, Metropolis ma anche trasfigurando dove i gladiatori sono i Wrestler e quindi appunto la sostanza viene trasformata in effimero, falso, patinato. Un lavoro che è stato messo in piedi soprattutto per dare valore all'Arte, perché dopotutto è colei che ci ha sempre salvato e forse continuerà a farlo proprio adesso che sembra così assente, nelle nostre vite, nelle città o dentro di noi.
Personaggi scritti magistralmente e una regia maestosa ci regalano due ore e passa di spettacolo assoluto, forse la critica più feroce e maestosa al capitalismo e a tutto quello che ti brutto sta succedendo al nostro mondo con però un filo di speranza nello stupefacente finale. Capolavoro.
Dal 1994 al 2024 sono passati la bellezza di trent’anni eppure sembra che il mondo non sia cambiato granché, oggi come all’ora mi trovo inchiodato a casa per una brutta influenza e in qualche modo a mettere le mani su un titolo videoludico preso qualche tempo fa che in fin dei conti è il remake di quel Prince Of Persia che mi incantò nel lontano 1994 nella sua versione per SNES (giocai qualche anno prima anche la controparte NES).
Lo dico subito, dopo un inizio interlocutorio, che purtroppo mi accade ormai spesso con i titoli 2D di nuova produzione il giochino in questione mi ha entusiasmato e per certi versi riportato indietro nel tempo, come pochi “remake” hanno saputo fare riuscendo a divertirmi ed emozionarmi non poco. Giocato su PS5 non ho notato nessun problema tecnico di sorta, tutto fluidissimo e dettagliato, comandi rapidi, intuitivi e semplici anche per un vecchietto come me e una storia che nella sua semplicità narrativa mi ha spinto ad andare avanti nell’avventura.
Però è forse proprio questo il problema dei titoli moderni, questa abbondanza di giga porta gli sviluppatori a farcire i videogiochi di trame complesse, dialoghi infiniti, animazioni curate a metà strada tra un cartone animato e un lungometraggio cinematografico. Tutto bellissimo per carità ma anche tutto così mortalmente finto. Se Prince Of Persia ci piaceva tanto nel 1992 era proprio per il mostrare fino ad un certo punto, dove la nostra fantasia faceva da riempitivo su tutto quello che non poteva essere contenuto in floppy disc. Inoltre i videogiochi erano appunto giochi, due tasti molto spesso, A e B e una croce direzionale per immergersi in un mondo che diventava fantastico proprio per le nostre “aggiunte immaginifiche”. Il castello del Principe di Persia era sempre diverso, perché diversi erano gli occhi dei bambini o ragazzi che interpretavo quell' avventura fatta di pixel.
Sono e resterò un nostalgico di quel tipo di tecnologia proprio per questo motivo, perché in quegli anni ancora il medium non era il messaggio per dirla alla Marshal McLuhan, tutto era embrionale, difficile spesso, cervellotico affascinante, nerd e misterioso.
Insomma Prince Of Persia The Lost Crown è un metroidvania, adesso si dice così tra i migliori da me giocati negli ultimi anni, un titolo da avere e maneggiare con cura soprattutto ora che si trova a meno di 30 euro che per me rimane il prezzo massimo da destinare ad un videogioco. Ora inizio a leggere il seguito di Jack Frusciante con il vinile di Gilmour in sottofondo.
Il Corvo – R.Alex Proyas (1994)
Il Corvo compie trent’anni e il miglior modo per festeggiare questo cult movie degli anni 90 è l’acquisto della versione remastered in 4K, costosa ma indispensabile. Tratto dal bellissimo fumetto di James O’Barr, artista provato dal lutto che in maniera compulsiva disegnerà un po’ ovunque questa storia che riuscirà poi a mettere insieme diventando un fenomeno underground degli anni 80 grazie anche alla sua particolarità e cupezza.
Alex Proyas mette in scena con grande maestria un film che è rimasto nei cuori di tutti gli appassionati di cinema e che malgrado non tocchi le vette di Dark City (il successivo lavoro di Proyas) folgorò un’intera generazione, purtroppo anche per la morte del protagonista Bradon Lee proprio sul set del Corvo.
Il film funziona su tutti i punti di vista e malgrado i trent’anni non è invecchiato affatto male, merito di una fotografia dark riuscitissima, attori davvero nella parte e una colonna sonora che è diventata anch’essa ormai cult. Un lavoro che utilizza poco la computer grafica e grazie a dei set davvero suggestivi ci porta in questa fiaba moderna, con questo corvo che vola tra i palazzi in un cielo grigio dove piove sempre come in Blade Runner e con il nostro protagonista zombie che ritorna appunto dalle tenebre per vendicarsi di chi ha spezzato la sua vita e quella della sua amata.
Le scene d’azione sono studiate alla perfezione e Brandon Lee riesce oltre a mettere in campo le sue qualità atletiche nelle arti marziali a suggestionare lo spettatore nei numerosi primissimi piani, merito anche dei costumi, centrati e di quel trucco un po’ da pierrot che dona a Lee un aspetto quasi androgino, poetico. La grandezza del film sta comunque nella sua estetica che spazia dall’espressionismo al dark più estremo con delle scene iconiche come la corsa sui tetti o quando si reca a casa della madre della bambina e gli strizza l’eroina dalle vene. Un angelo caduto sulla terra dannato ma nello stesso tempo beato per un film imprescindibile e da acquistare in formato fisico attendendo magari che il prezzo scenda. Quasi un capolavoro. 8/10
E se nelle cose gettate, buttate, perdute ci fosse l’essenza della felicità? Ho ripreso a girare per mercatini, alla ricerca di film, libri nascosti, ingialliti, immacolati, letti, consumati. Ho ripreso a frequentare il centro della città, le poche cose che mi piacciono ancora, un piccolo birrificio, un putrido negozio di dischi che un tempo frequentato tantissimo, un laboratorio HI.FI. Quello che faccio, se ci si pensa bene non è soltanto un rifiuto atavico verso tutto quello che è piattaforma, streaming, preconfezionato, scontatissimo, seriale.
La mia è una ricerca estenuante degli ultimi brandelli della razza umana, ormai sepolta da figure post-umane, siliconate non solo dentro il proprio corpo ma anche esternamente, su quelle periferiche smart potenzialmente interessanti ma che sono diventate atroci, superficiali e fugaci.
All’interno di questi luoghi malsani, pieni di polvere e insetti si trovano spesso vecchie collezioni, gioielli difficili da trovare in rete e quindi così indispensabili in una ricerca autarchica che mai come ora appare fondamentale.
Tenendo però sulle mani quelle confezioni spesso sfasciate si entra in contatto con quello che un tempo era una vita piena, fatta di momenti che forse stiamo perdendo per sempre come lacrime nella pioggia.
Il cinema, la letteratura, la musica rappresentavano il fulcro centrale di giornate alcoliche, lisergiche, finite in dibattiti infiniti in auto sfasciate, in salotti improbabili dove depressione solitudine e male di vivere portava noi zombie della notte a ricercare sempre qualcosa dentro le viscere, per creare roba nuova, artistica, indecente, inconsistente a volte bellissima.
Se i topi fossero davvero usciti dai loro buchi come quelli di Blek le rat a Parigi allora possiamo davvero sperare in un mondo analogico, ancora vivo, umano e sessuale. Le destre potrebbero cadere, i sistemi totalitari andare in frantumi insieme agli steroidi dei culturisti che fanno video atroci su youtube; pallori e magrezze saranno il nuovo esercito di invasori, bramosi di succhiare il sangue per ricercare le ultime macchine da scrivere rimaste, videocamere 8mm per riprendere festival di poesie in una ventata creativa che sono sicuro rimodellerà il mondo in quella periferie di parole nascoste che sarà il nostro MANIFESTO.
Il Corvo (2024) R: Rupert Sanders
Parliamoci chiaro Il Corvo originale del 1994 con la sua idea gotica, una colonna sonora spaziale e un protagonista tragicamente morto sul set che contribuì non poco a rendere cult la pellicola è qualcosa che rimarrà per sempre impressa nella mente di tutti quelli che hanno vissuto in maniera intensa gli anni 90. Ovviamente non si trattava di un film perfetto ma l’adattamento del celebre fumetto di James O’Barr ad opera di Alex Proyas riusciva in maniera quasi insostituibile a catturare non solo l’estetica dark che ormai stava scemando nei 90’ ma anche a rendere credibile la figura dell’ati-eroe, perché Brandon Lee fu perfetto nel far capire al grande pubblico che i super eroi non erano solo quelli della Marvel.
Il Corvo del 2024 non c’entra nulla con tutto questo! Con una sceneggiatura che stravolge completamente il concetto alla base della graphic novel e della pellicola originale, pompando il protagonista di un buonismo davvero stucchevole, “arricchito” dai primi 45 minuti di film dove non succede davvero nulla con dei flashback che ci spiegano il trascorso del nostro “eroe” che di lì a poco verrà ucciso insieme alla sua fidanzata.
La sceneggiatura è tra le cose più atroci scritte negli ultimi anni, i personaggi non vengono spiegati affatto in una narrazione inesistente che non ci permette di capire chi è Erik e chi Shelly per non parlare poi dei “cattivi” che sono buttati dentro il film così a caso mettendo dentro paradiso inferno, allontanandosi completamente dall’idea del bellissimo fumetto. Film diviso in tre atti, allucinante il secondo dove lui spiega tutte le volte che è morto per poi arrivare all’ultima parte diciamo action che anticipa il terribile e bruttissimo finale.
Anche la messa in scena è davvero scadente con una fotografia da serie TV davvero piatta e un uso della computer grafica fastidioso, quasi da B-Movie senza però avere gli spunti interessanti di una produzione a basso costo. Le musiche potrebbero essere interessanti nel senso che ci sono brani bellissimi dei Joy Division del grande Gary Numan ma anche qui, buttati nel film senza un senso logico rendendo gotico e dark qualcosa che in realtà è solo svilente.
L’unica cosa dignitosa risiede nel montaggio, che sarebbe anche veloce e frenetico peccato però che una sceneggiatura inesistente gli impedisce di poter far quantomeno decollare il film sotto quest’aspetto.
Per concludere possiamo tranquillamente affermare che ci troviamo davanti un lavoro di puro e semplice marketing, in una Hollywood ormai priva di idee si punta quasi esclusivamente sul remake, lo si fa questa volta toccando un lavoro che francamente già al tempo della sua uscita cercava di allontanarsi dalle dinamiche del colossal, anche perché il grande regista Alex Proyas nel corso della sua carriera ci delizierà di opere sempre votate al dark underground, lo splendido Dark City ne è l’esempio più florido. Se questo scempio bastasse a far tornare la gente nei cinema sarebbe già qualcosa, se però dovesse incassare dovremmo anche chiederci perché la razza umana ha deciso, deliberatamente o meno di non occuparsi più di questioni culturali.
Tra un videogioco, un social, qualche serie TV di sottofondo e film come questo abbiamo scelto di sprofondare in un mare pieno di letame.
Nick Cave & The Bad Seeds - Wild God (2024)
Parliamoci chiaro “Wild God” è il diciottesimo album in studio di Nick Cave in una carriera che ormai sfocia i cinquant’anni di attività discografica, questo solo per dire che cercare novità all’interno di questo bellissimo, lo dico subito, album sarebbe sbagliato e forse anche forviante. Cave sono anni ormai che si propone come un moderno Bob Dylan con una cadenza di uscite che si attestano su un lavoro discografico ogni tre anni. “Wild God” ci racconta di questo Dio Selvaggio alla ricerca di ricordi e ragazze perdute, un Dio piuttosto differente dai lavori più spirituali e meno terreni come “Skeletron Tree”, forse il disco migliore dell’ultimo periodo di Cave e “Ghosteen” che toccava vette celestiali e quasi liturgiche.
Nella stesura dei testi Cave è sempre un maestro, le sue storie sono affascinanti, mai banali, alte, un intellettuale capace ancora di stupire in brani come “Cinnamon Horses” ma anche in “O Wow O Wow (How Wonderful She Is) ironiche entrambe, ispirate. Se in “Carnage” il precedente lavoro forse un po’ dimenticato Cave aveva sfornato un capolavoro come “White Elepahant”, qui è quando si siede davanti al pianoforte che riesce a tirare fuori ancora il coniglio dal cilindro con la struggente “Long Dark Night” che sul piano musicale aggiunge pochissimo e rimanda a moltissime altre canzoni di un passato neppure così recente ma nonostante ciò non smette di affascinare ascolto dopo ascolto.
Sul piano musicale la presenza dei Bad Seeds si sente poco, dopotutto è sempre il solito Warren Ellis a dirigere un lavoro debole di chitarre (per quelle ci sarà da aspettare Grinderman 3) e pieno di arrangiamenti con archi e cori degne degli ultimi lavori firmati sia a nome della band che con il solo Ellis.
Concludendo possiamo ringraziare ancora una volta il re Inchiostro per la sua tenacia e la voglia, mai parca, di consegnarci lavori sempre di questa caratura.
8/10
Beetlejuice Beetlejuice - Tim Burton (2024)
Parliamoci chiaro Tim Burton ci è sempre piaciuto perché è stato sempre qualcosa di diverso, riconoscibile, inedito, maestro. Se in gioventù fu cacciato dalla Disney per le sue idee stravaganti (menomale) nella sua carriera ha sfornato almeno quattro film capolavori più o meno in tutte le decadi. Beetlejuice (1988) sua seconda opera è uno di quei film memorabili e riprenderlo in mano potava dare l'idea dell'operazione remake a tutti i costi. Se infatti l'inizio del film ci riporta a atmosfere alla Strange Things e altra robaccia simile con il passare dei minuti la pellicola acquista un'identità tutta sua, facendosi strada tra le atmosfere e i protagonisti del primo film (ancora strepitosa Winona Rider) e nuovi personaggi che si intrecciano alla perfezione come la sempre bravissima Jenna Ortega (Mercoledì in Adams) e Michael Keaton che ancora una volta interpreta Beetlejuice e sembra non essere invecchiato di una virgola. Qui c'è poca operazione nostalgia e se è vero che il film non aggiunge nulla al suo predecessore (non staremo qui a raccontare la trama) contiene comunque dei momenti memorabili, soprattutto nel crescendo finale. Burton filma una delle sue pellicole meglio riuscite degli ultimi anni, dove tra musical, fantasy e assurdità riesce a divertire, far riflettere riconsegnandoci un cinema per certi versi unico di cui avremmo sempre più bisogno. Certo ci sono scivoloni, la presenza di Monica Bellucci è forzata e forse fuori fuoco ma la regia è sempre interessante e il comparto fotografico e musicale di livello pregiatissimo. Non un capolavoro insomma ma un film che andrà rivisto ed acquistato in formato fisico soprattutto per goderselo durante le feste di Natale. Bentornato caro Tim.
Limonov - Regista: Kirill Serebrennikov (2024)
Premetto che sono stato un grandissimo estimatore della biografia-romanzo di Emmanuel Carrère intitolata appunto, Limonov. Mi conquistò in un’estate romana sprovvista di ferie e mi fece scoprire questo personaggio per me oscuro, un russo dissidente, politico, poeta, rock-star. Finito il libro di Carrère avrei voluto intraprendere la carriera del rivoluzionario ma Limonov piuttosto che rivoluzionario è stato soprattutto un oppositore di qualunque cosa, un anti tutti gli anti da vero bohemien.
Il film di Serebrennikov c’entra poco con il romanzo di Carrère, descrive un Limonov più rock-star, forse eccessivo in un’operazione simile a quella di Oliver Stone con il criticatissimo The Doors dove la musica anche qui la fa da padrona, bellissima, cangiante nelle varie fasi del film che spaziano tra New York e Russia. Un film per chi ama sentimenti forti, estremo per certi versi anche da un punto di vista visivo, bellissimo, da vedere anche per scoprire un personaggio magari meno conosciuto dai più ma sempre intrigante, stimolante che vi farà dire verso i titoli di coda che opporsi è la cosa più fica (cool) del mondo.
Infinity Pool (2003) R: Brandon Cronenberg
Mentre ascolto il nuovo singolo dei Fontaines D.C. , ovvero la bellissima "Desire" mi salgono ancora nella testa le immagine convulse e ipnotiche di "Infinity Pool" (2023) il grande film di Brandon Cronenberg figlio di quel David che ha folgorato la mia adolescenza e probabilmente non solo la mia. Lavoro non perfetto, lungo, forse anche poco criptico dove tutto viene spiegato fin troppo bene ma che nello stesso tempo mostra quello che ormai nessuno ha più il coraggio di girare: masturbazioni, peni, orge in un politicamente scorretto che a tratti rimanda al padre ma anche a film più contemporanei come la saga di "The Purge". Un lavoro che parla della nostra società dispotica con una trama tanto assurda da sembrare tremendamente reale: cloni, resort inquietanti, sogni e trip lisergici ci accompagnano in un incubo dove le scene più terribili sono in realtà le più normali: "la masturbazione" e quel finale così atroce dove la quotidianità viene descritta come peggiore dell'incubo più atroce. Attori bravissimi soprattutto la sorprendente Mia Goth interpretato un lungometraggio dove l'immagine e la regia la fanno da padrona anche a dispetto di un comprato sonoro ridotto ai minimi termini. Ci siamo, forse le nuove leve stanno incominciando a tirar fuori la testa dalla sabbia. 3.5/5
AfterSun R: Charlotte Wells (2022)
Film notevolissimo che avevo già adocchiato da tempo e per certi versi generazionale (almeno per la mia di generazione) perché parte della pellicola è ambientata proprio in un’estate ipotetica degli anni 90. Un lungometraggio che gioca su sottrazione e verità celate nei fuori campo, quando la piccola videocamera DV con cui la giovane protagonista, una bravissima Frankie Corio, riprende quella che probabilmente sarà l’ultima estate trascorsa con suo padre. Opera prima di Charlotte Wells che ci restituisce un cinema davvero di alto impatto emotivo, riuscendo a trattare argomenti profondi senza essere mai stucchevole, un piccolo puzzle che compone una figura complessa come quella dell’essere umano. Un film che mi ha portato in territori ormai antichi come “L’estate di Kikujiro” di un ancora ispiratissimo Kitano ma anche in “Oltre la Notte” di Fatih Akin. Aftersun è perfetto già dal titolo come notevolissimo è anche Paul Mescal che riesce con un lavoro di fine eliminazione del superfluo a regalarci un’interpretazione indimenticabile e lucidissima. Amiamo il cinema perché ogni tanto, ormai raramente purtroppo, escono pellicole di questa levatura. 4/5
L'imprevedibile Viaggio di Harold Fry Regia: Hettie Donald (2023)
Si torna a parlare di cinema e di cinema fatto da donne che sembrano in questo momento storico più ispirate di noi maschietti. Hettie Donald regista ampiamente usata in moltissime serie TV di successo fa di nuovo centro con il suo secondo lungometraggio dopo il buonissimo esordio di Beautiful Thing (1996). Questo periodo lunghissimo tra un film e l'altro la dice lunga sullo stato attuale del cinema, una regista di talento come la Donald infatti ha ripiegato per quasi un ventennio sulle inflazionate SerieTV (che per me rimarranno anche nella migliore delle ipotesi un prodotto surrogato e per forza di cose, minore) piuttosto che sulla settima arte ormai forse poco retribuita.
Tratto dall'omino romanzo, anch'esso splendido che mi ipnotizzò in un estate di diversi anni fa il film segue un andamento piuttosto lineare, dopotutto la trama è semplice dove il nostro Harold, uno strepitoso Jim Broadbend decide di percorrere 800km a piedi per andare a trovare una sua amica gravemente malata con cui, molti anni prima aveva condiviso un momento saliente della sua esistenza.
Intorno a questa trama la Donald costruisce una regia raffinata dove i primi piani del protagonista e alcuni piani sequenza donano alla pellicola una sorta di poeticità rendendo il film una via di mezzo tra "Una Storia Vera" di Lynch e "Forest Gump".
Il viaggio del protagonista oltre che spirituale è anche fisico, metaforico, perché con l'avanzare del tempo si comprende come forse non abbiamo bisogno di nulla, orpelli tecnologici come GPS, cellulari, stanze d'albergo lasceranno spazio alla sola natura e qui ritorna prepotentemente anche un pò il concetto ampiamente sviluppato da Pen in Into The Wild.
Un film che proprio come lo stupefacente Aftersun ci riconnette con l'arte, imprevedibile ma forse improbabile questo viaggio ci ricorda ancora una volta che il cinema andrebbe protetto, cullato, custodito, amato. 4/5
Un Colpo Di Fortuna R:Woody Allen (2023):
Primo film di Allen girato in Francese (non in Francia), la pellicola è in sostanza una commedia dalle forti tinte black, cupissima per certi versi ma splendida che rimanda a Match Point e a Crimini e Misfatti ma anche a Omicidio a Manhattan soprattutto per il ruolo della madre della protagonista, una strepitosa Valérie Lemercier. Gli attori qui sono tutti notevoli ma a lasciare a bocca aperta è l'incredibile fotografia di Vittorio Storaro, sempre ricercatissima e capace di dare lustro a questi personaggi ricchissimi che non hanno nulla da dire se non spettegolare dalla mattina alla sera, ed è bravissimo qui Allen nella scrittura dei dialoghi. Woody Allen nonostante i suoi quasi novant'anni non ha perso lo smalto e sembra ancora ricordarci che bisogna cogliere l'attimo, tra tematiche care all'autore come l'adulterio, l'amore e la gelosia. Allen qui più che risposte pone domande, sono piuttosto i protagonisti a dare le risposte che non è detto che siano quelle giuste perché l'unica cosa davvero certa è il ritmo di questa pellicola, perfetto grazie ad un montaggio magistrale e ad una colonna sonora pregevole. Un film che non sarà il migliore di Allen ma che scorre via senza mai annoiare, diverte e ci fa riflettere soprattutto su noi stessi. voto 3.5/5
Gli Anni Venti – Estra 2024
Gli Estra sono un caso curioso nella discografia italiana degli anni 90, forse, l’unico gruppo prodotto da una major che non è riuscito a sfondare in quel periodo così florido un po' per tutti, improvvisati colossali inclusi. Dischi bellissimi, tre, per poi sciogliersi come neve al sole senza nessun reclamo da parte del pubblico, almeno quello generalista. Giulio Casale, voce e chitarra, nel frattempo si è ricavato la sua carriera da solista tra album interessanti e tanto teatro. Così dopo un’operazione di crowdfunding che fa tanto tempi moderni e dopo secoli di congelamento discografico esce, finalmente potremmo dire, questo “Gli Anni Venti”. Dico finalmente perché il disco ci riporta ad un suono che in qualche modo avevamo dimenticato, pieno di chitarroni, rock (anche se parlare di rock in Italia fa un po' ridire) e testi pieni di spunti e riflessioni su cui sarebbe bello soffermarci. Giulio Casale è sempre attento nella scrittura e la voce per certi versi è più centrata rispetto ai lavori più cantautorali. Si parte da una copertina evocativa, quasi alla Bansky per immergersi in quaranta minuti scarsi di musica, brani veloci che suonano un po' post rock e a tratti grunge, notevole il brano “Ti Ascolto”, catartico e ispirato come “Lascio Roma” forse il momento più alto del disco che ci porta più dalle parti del “Il Teatro Degli Orrori” con un testo politico e provocatorio. Pochi i momenti pop forse la sola “Nel 2026” che comunque nella sua orecchiabilità offre ancora un sound di tutto rispetto con un testo sempre interessante.
Pochissimi i momenti trascurabili, un lavoro concepito quasi per ricordarci di come fossero belli i tempi della nostra gioventù fatti di hi-fi, negozi di dischi, videoteche e cinema fumosi. Abbiamo voluto questo futuro e tutte le volte che ce ne pentiamo possiamo sempre ascoltare questo nuovo e bellissimo lavoro degli “Estra”. Compratelo però in formato fisico, in questo caso il CD potrebbe anche essere meglio del Vinile. 4/5
Ora vi racconto una storia che sono sicuro la maggior parte di voi non conoscerà, quasi una fiaba potremmo dire, una magia: quando Joe Strummer (leader e cantante dei Clash) era ancora vivo, proprio nel suo ultimo periodo prima di volare nell’altra dimensione, aveva una Caddilac gigantesca con il portabagagli strapieno di casette musicali con cui girava per la California. Aveva una missione il vecchio Joe, fare una sintesi di tutta quella musica fino ad arrivare ad una sola cassetta. Così incontrava i suoi amici, tra cui il produttore Rick Rubin e gli diceva: << sto gettando via molta musica e quando mi rimarrà una sola cassetta, allora potrò morire in pace perché in Paradiso non si può entrare con troppa roba!>>. Joe giro’ la California in auto e tra un falò e l’altro, tra una visita ad un amico e a qualche amore dimenticato riuscì a ridurre di parecchio la sua collezione; un giorno andò da Rick e gli disse: << mi è rimasta una sola cassetta, questa è la musica definitiva e da adesso in poi potrò ascoltare soltanto questa! >>. Rubin esterrefatto volle vedere di cosa si trattasse e così scoprì l’artista ANDRES LANDERO; l’ultima grande scelta del suo amico Joe Strummer era ricaduta su un misterioso musicista colombiano.Il giorno dopo Joe Strummer morì d’infarto all’età di 50 anni.
Mi sono trovato di fronte ad un surrealismo nuovo, originale e inedito, lontano da tutte le tradizioni. È totalmente David Lynch. Guardandolo ho capito davvero cosa fosse un vero artista, cioè qualcuno che è se stesso e mostra la sua realtà per come la vede (David Foster Wallace)
Mi rendo conto di quanto io ami profondamente gli anni 90, soprattutto nel cinema meno nella musica. Gli anni di Tarantino certo (di cui però ho amato solo i primi tre film!), ma sopratutto il decennio di Takeshi Kitano enorme cineasta che sfornò una serie di capolavori uno dietro l'altro da far impallidire anche Kubrick (Hana-bi, Il silenzio sul mare, Sonatine ecc.). Gli anni di 90 sono stati però anche gli anni di Jim Jarmusch che pur essendo un artista che iniziò negli anni 80 ebbe il suo apice proprio nell'epoca grounge con robetta del calibro di "Taxisti di Notte" ma soprattutto "Dead Man". Jarmusch mi fà però ricordare di un'altra perla, che in qualche modo riprende le atmosfere del regista di "Daunbailò" e se possibile espande ancora di più un'idea di cinema per certi versi "naif" che trasuda arte ad ogni inquadratura. Mi riferisco al capolavoro dell'ormai scomparso (artisticamnete) Vincent Gallo ovvero "Buffalo 66", opera prima e in parte autobiografica che folgorò e non poco tutti gli appassionati di cinema in un 1998 davvero gonfio di grandi uscite.
Mark Hollis - Mark Hollis 1998
Non perdonerò mai del tutto i presunti appassionati di musica che in un modo o nell’altro hanno contribuito a far sparire i negozi di dischi, luoghi di cultura dove un tempo si potevano scoprire opere meravigliose come l’omonimo e unico lavoro di un genio “pop”, forse incompreso, forse troppo profondo. Lontanissimo dai primi Talk Talk di cui era leader e voce, qui Hollis si trova più dalle parti di Peter Gabriel e David Sylvian per andare se possibile ancora oltre e consegnarci un’immensa opera d’arte che può rivaleggiare tranquillamente con i lavori più ispirati di Robert Wyatt o Nick Drake. La voce è profondissima, musicalmente siamo su territori di jazz minimale anche se gli strumenti usati sono moltissimi : tromba, clarino, corno inglese, chitarre, piano, harmonium, basso, batteria, percussioni, armonica, fagotto… un disco eccellente come la struggente The Colour Of Spring messa in apertura o la monumentale Inside Looking Out. Ma la verità è che qui ogni momento è prezioso, mai banale e ascolto dopo ascolto si percepisce qualcosa di nuovo e incantevole. Un lavoro che non potrà sparire dentro la banalità di questi tempi moderni e che a distanza di quasi trent’anni
La mia generazione Grunge, ultimo baluardo rock senza like e senza click. Nevermind, Jeremy e quel Corvo di Alex Proyas. Le strade perdute di Lynch e i negozi di dischi da esplorare con le videocassette da duplicare perché i soldi erano sempre troppi pochi per i ragazzi famelici. La Ferrari di Shumi che ci mise 5 anni prima di riportare l’iride a casa e quella sfida con Villeneuve nel 97, il sorpasso di Hakkinen sotto il diluvio due anni dopo. Poi c’era Tyson che sembrava l’uomo più cattivo del mondo, galera, orecchie strappate a morsi ma in realtà era soltanto un ragazzo depresso, come tanti. Maradona e quel rigore sbagliato di Baggio e anche Tomba non è che scendesse giù tanto piano da quelle montagne. La mia generazione che sembrava così deflagrata in realtà con il passare del tempo appare piena, quasi logorroica. Chi ha vissuto intensamente quegli anni affollati non potrà allora non riconoscere nel MITO, unico e unificatore quella figura per certi versi così poeticamente anni 90 di MARCO PANTANI. Il nostro James Dean, Lennon, Ali... quella sfida al tour nel 2000 contro l’americano, con un pirata ormai già minato da vizi, fantasmi e mostri rimarrà sempre nel cuore di chi c’era.
pensare che si vive in un mondo di stolti è un tipico pensiero da stolti
Nel mio lavoro, in alcuni momenti pieni di commozione ho capito che tutto nasce dalla famiglia: i guerrieri, l’ebbrezza dei sogni, le sfide e forse l’immortalità. I genitori che amano le creature che hanno messo in questo mondo, che non li ostacolano nel perseguire l’incanto del sogno, fosse anche l’ebbrezza del pericolo, sono ricchezze, sono sorgenti di ragazzi speciali. La famiglia è la sorgente del sogno, la culla del sogno.
I Depeche nel 1989 si distaccarono molto dall'idea platonica di Dio, che nel suo personale universo metafisico non comprendeva appunto un Dio personale ma solamente il Divino (con la relativa accezione che il maestro dava a tale ternine: divina è l'anima, divine sono le idee, le stelle ecc). Detto ciò che capolavoro che fu quel tanto amato (da me e da altre 6 milioni di persone) Violator.
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